Premi Oscar 2021: la guida alla visione di Galleria Millon

Premi Oscar 2021: la guida alla visione di Galleria Millon

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Tra poco più di una settimana, nella notte tra il 25 e il 26 aprile, al Dolby Theatre di Los Angeles verranno assegnati i 93rd Academy Awards. Nonostante la pandemia, la più importante celebrazione del mondo del cinema e dei suoi lavoratori avrà comunque luogo.
Non è stato un anno semplice, per il settore. Le produzioni hanno subito notevoli rallentamenti a causa di limitazioni e lockdown nazionali. A livello globale, la chiusura delle sale ha comportato una perdita, nel 2020, di circa trenta miliardi di dollari. Come misura di contenimento delle perdite, l’uscita di molte pellicole è stata rimandata. La conseguenza è un vuoto sconsolante, all’interno del quale si è fatto strada qualche titolo sparuto, e spesso di incerto valore.

Ciononostante, anche quest’anno è uscita la lista con le ventitré nomination, e Galleria Millon non vi vuole lasciare impreparati. Il nostro Organizzatore di eventi, infatti, ha stilato per voi otto brevi recensioni sui contendenti all’Oscar per il Miglior film, qui in ordine di uscita. Senza dilungarsi sulla trama, ha preferito soffermarsi sulle coordinate tecniche e sull’estetica dei film, evitando rigorosamente gli spoiler. Non ci resta che augurarvi buona visione, e buona lettura!

The Trial of the Chicago 7

La rosa dei candidati al titolo di Miglior film si apre con The Trial of the Chicago 7, l’ultima fatica di Aaron Sorkin. Sapere che la sceneggiatura è firmata dalla stessa penna che ha scritto The Social Network e Moneyball dovrebbe essere già di per sé una garanzia. Ed effettivamente questo film non appanna la bravura di Sorkin. Gli indimenticabili hippie di Jeremy Strong e Sacha Baron Cohen e il crescendo dell’interrogatorio preparatorio del personaggio di Eddie Redmayne bastano per darci un’idea dei guizzi della sua scrittura. Tuttavia, a questo film manca qualcosa. O forse proprio il contrario: la storia è troppo densa per essere ingabbiata in una sceneggiatura.

The Trial of the Chicago 7 racconta una storia vera, con un messaggio politico. Sorkin ne ha visto il potenziale, ne ha colto l’assurdità di fondo, il lato farsesco, e ha saputo metterli a frutto. E così la giusta indignazione si mescola inevitabilmente al riso. Ma questa schizofrenia di sentimenti non risulta spiacevole per lo spettatore; i problemi stanno altrove. Come nella partenza rutilante seguita da un anticlimax appesantito dalla scena nell’ufficio del nuovo procuratore generale. O forse nella scarsa potenza dello schema narrativo, in generale. Basteranno i personaggi impeccabilmente tratteggiati a fargli conquistare la tanto ambita statuetta?

Nomination: 6
Voto: 7/10

The Trial of the Chicago 7 e Mank

Mank

Mank, insieme a Tenet, è stato il principe di una stagione cinematografica paralizzata dalla pandemia. Con i cinema chiusi, tutte le case di produzione hanno atteso per far uscire i loro pezzi forti – uno su tutti The French Dispatch. Ma David Fincher, con il suo film in bianco e nero su Herman Mankiewicz, sceneggiatore di Citizen Kane, aveva Netflix dalla sua.

Questo film è un compitino ben fatto. C’è la colonna sonora impeccabile, curata da quei mostri sacri che sono Atticus Ross e Trent Reznor. C’è il sostegno di quel capolavoro senza tempo che è Citizen Kane, di cui viene riproposta la struttura narrativa a incastro fatta di incontri e flashback. Ci sono i volti di attori navigati, primo tra tutti Gary Oldman, tanto amato dall’Academy. Eppure, lascia un po’ freddi. La recitazione non è indimenticabile. La struttura – al contrario, paradossalmente, della sceneggiatura di Mankiewicz – non è fluida: singhiozza, rallentata dalla giustapposizione non sempre chiara dei piani temporali. Poi ci sono i camei dei numerosi personaggi storici dai nomi dimenticati, che si alternano sulla scena lasciando lo spettatore un po’ frastornato. Fincher ci ha dato un film ben fatto, ma niente di più.

Nomination: 10
Voto: 7/10

Sound of Metal

Dopo il successo di Manchester by the Sea nel 2016, Amazon Studios torna agli Oscar e punta alle categorie più prestigiose con Sound of Metal. La sceneggiatura è del Derek Cianfrance di Blue Valentine, che per scriverla si è ispirato alla sua esperienza di musicista affetto da acufene. Il protagonista, interpretato da un catartico Riz Ahmed, è un batterista ex-tossicodipendente che, dopo la perdita dell’udito, viene costretto a tornare in comunità. Stavolta i suoi compagni sono altri non udenti come lui, e l’obiettivo è imparare a convivere con la sua nuova condizione. 

È un film sincero e trasparente, sorretto da un montaggio sonoro impeccabile che ci rende partecipi dell’isolamento del protagonista e della sua lotta. Venire a patti con la propria disabilità, in un certo senso, sembra assomigliare al percorso che porta il tossico ad accettare la propria dipendenza. Tuttavia, la speranza di poter riacquisire l’udito, e invertire l’irreversibile, preclude la riabilitazione. 

Se Sound of Metal potesse essere riassunto con un concetto, questo si troverebbe agli antipodi della resilienza. Perché è un film sulla fragilità della vita umana e sulle azioni scomposte che cerchiamo di compiere per ritrovare l’equilibrio. A cui seguono, per forza di cose, cadute e ricadute. E infine, il silenzio, come metafora della resa e della pacificazione con noi stessi.

Nomination: 6
Voto: 7,5/10

Sound of Metal e Promising Young Woman

Promising Young Woman

Promising Young Woman è un altro film dal messaggio molto forte, incarnato da una protagonista tutta d’un pezzo che veste i panni della Nemesi per eccellenza. Nonostante la sua potenza, tuttavia, risulta difficile definirlo un film da Oscar. Non si discute la bravura di Carey Mulligan – che qualche giornalista ha voluto ritenere non adeguata al ruolo, quando invece le si attaglia alla perfezione. Non si discute nemmeno la necessità di un film del genere: ogni tanto ci meritiamo un’eroina che non ambisce a nulla se non alla vendetta. In un’epoca in cui le vittime di stupro passano per bugiarde, esagitate o maliarde, serve una storia che cambi il punto di vista, anche con la forza dell’estremizzazione.

La questione sul tavolo, infatti, non è il messaggio, ma la forma. Al di là del principale punto debole, che è sicuramente il montaggio, a suscitare maggiori dubbi è l’uso dell’estetica. Promising Young Woman è molto instagrammabile, dalla composizione delle scene alla palette dei colori e alla – sgraziata – colonna sonora in salsa TikTok. Il tutto sembra confezionato appositamente per strizzare l’occhio a un certo tipo di femminismo da Tumblr e questo rischia di togliere di profondità al messaggio. Lo zucchero, per Barthes, sarà pure violento, ma forse appiattisce e semplifica, al posto di sostenerla, la giusta rabbia della protagonista.

Nomination: 5
Voto: 6/10

Nomadland

Vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia di quest’anno, Nomadland è un poema che parla dei nostri tempi. La storia è quella dei nomadi contemporanei che, in questa pellicola in cui la finzione spesso scolora nel documentario, hanno modo di raccontarsi. La regista, Chloé Zhao, ce li mostra a tutto schermo, in primi piani intimi che sono veri frammenti di vita vissuta. Il versante finzionale, invece, è affidato a Frances McDormand, una donna rimasta senza passato e condannata a non avere futuro, che vive alla giornata. Per questo la sua casa è un furgoncino in movimento, che attraversa un’America brulla, povera e sconfinata, dove la solidarietà è l’unico rimedio alla miseria. 

Zhao deve aver studiato alla scuola di Terrence Malick, e la camera spazia sulle macerie della Terra delle opportunità in crisi infondendo un’anima all’inanimato. Come in Malick, le vicende prendono una piega da epopea biblica, mentre non c’è spazio per la prosaicità. L’incertezza, la sofferenza, la lotta quotidiana e l’ostinazione si innalzano in una dimensione rarefatta, nei tramonti viola del deserto del South Dakota. E i lutti strazianti rimangono sospesi nell’aria, mentre le strade di Zhao, con la loro poesia, ricordano che c’è sempre spazio per un’apertura.

Nomination: 6
Voto: 7,5/10

Nomadland e Judas and the Black Messiah

Judas and the Black Messiah

Se dopo l’ultima scena di Blakkklansman siete usciti dal cinema infervorati, dopo Judas and the Black Messiah avrete un nodo in gola. Perché qui non ci sono poliziotti buoni a battersi contro le ingiustizie: qui tutto il sistema è corrotto. E i moltissimi oppressi, riuniti dalla determinazione di un agguerrito gruppo di Black Panthers, non possono che affidarsi al loro nuovo messia: Fred Hampton

Questo film è potente, perché è una straziante e sconvolgente storia vera. Tutto è pregnante. Lo è il titolo, che ci regala una dicotomia così evocativa. Lo è il primo segmento, dove il corso degli eventi è cucito insieme dal livido sanguinante sulla fronte del Giuda-infiltrato. Lo sono le performance dei due interpreti principali, entrambi candidati come Migliore attore non protagonista. LaKeith Stanfield, l’adorabile svitato di Atlanta, qui nei panni del doppiogiochista militante, è magistrale. La sua è una recitazione stratificata, fatta di sentimenti simulati e incerti. La verità del cuore emerge solo nell’atto finale, in quella scena così drammatica i cui protagonisti, il discepolo traditore in primis, sembrano ritagliati direttamente dal Vangelo

Poi, come in Blakkklansman, arriva il segmento conclusivo – una chiosa con materiali d’archivio – e con questo il più triste degli epiloghi. Non c’è lieto fine, nel Vangelo del messia nero. 

Nomination: 6
Voto: 8/10

Minari

Per Lee Isaac Chung questa era l’ultima possibilità che aveva deciso di concedersi. Per riuscire a farsi strada nel mondo del cinema, dopo anni di tentativi frustrati, ha scelto la storia della sua vita. Il suo Minari parla di una famiglia di immigrati coreani che cerca di sopravvivere nell’Arkansas degli anni Ottanta. Un film fatto di una luminosità diffusa, girato in venticinque giorni e sorretto da un cast di attori eccezionali. Non solo ci ha mostrato la bravura stupefacente del piccolo Alan Kim, classe 2012, ma ci ha anche regalato un personaggio indimenticabile, quello interpretato da Will Patton.

Minari è un film di tensioni, uno shangai di vite affastellate sul punto di rotolare in direzioni diverse. C’è il dramma degli immigrati, divisi tra il desiderio di realizzazione individuale e la nostalgia che li porta a riaggregarsi lontani dalla patria. C’è il terremoto che scuote le fondamenta della famiglia protagonista, separando il versante di una mascolinità rigida e orgogliosa da una femminilità emotivamente più sciolta. C’è anche lo scontro tra generazioni, tra la cultura americana globalizzata e l’eredità che portiamo nelle nostre radici. C’è l’opposizione tra ciò che richiede fatica e ciò che cresce in modo naturale. Tra ciò che è malato pur sembrando sano e tra ciò che è sano pur nascondendo la malattia. Eppure, Minari rimane delicato, soffuso, fresco. A dimostrazione che, come è successo con la carriera di Chung, sono le cose più piane, le più vicine all’origine della nostra essenza, a salvarci la vita.

Se volete approfondire, la rivista Little White Lies ha dedicato uno splendido numero a questo film.

Nomination: 6
Voto: 7,5/10

Minari e The Father

The Father

Al contrario di quanto lascia intendere lo sgraziato titolo in italiano, The Father non è un thriller che mostra elaborati inganni ai danni di un acciaccato ma lucido ottantenne. The Father, infatti, è una magistrale prova di sceneggiatura e recitazione che parla del fardello della demenza senile. Ed è spettacolare. Florian Zeller, da alcuni definito il migliore drammaturgo dei nostri tempi, ha adattato la trama a partire da una sua opera del 2012, intitolata Le Père. Il risultato è una pellicola da manuale di scrittura cinematografica. 

Zeller traspone lo smarrimento e le incertezze della mente di un padre malato di Alzheimer. Lo mostra nella lotta quotidiana contro l’oblio, contro una figlia vicina e lontana, un genero a intermittenza, e una schiera di badanti e infermiere intercambiabili. Realtà, ricordo, desiderio e pensiero si mescolano nel flusso della rappresentazione. Il tempo, contenitore delle azioni, è informe; non esistono le ore, prima e dopo hanno perso valore, tutto si ripete e si richiama. Lo spazio, limitato dalle pareti dell’appartamento, ha la dignità di un personaggio vero e proprio, che muta, si traveste, perde i pezzi. Zeller, fin da subito, ce lo mostra con una serie di fermo-immagine apparentemente innocui, che lo spettatore capisce poi essere frammenti di un mondo che si sta sgretolando lentamente. Queste sono le tessere che compongono The Father, un cubo di Rubik che si risolve sullo schermo con movimenti fluidi, un enigma senza soluzione degno di un Oscar.

Nomination: 6
Voto: 8,5/10

Illustrazione a cura di Martina Nenna.