la haine

Questa è la storia dell’ossessione per La Haine nel rap italiano

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Nel 1995 al cinema usciva La Haine (L’odio) di Mathieu Kassovitz, capolavoro premiato a Cannes per la miglior regia.

Passano venticinque anni e l’effetto – quello di uno sputo in faccia – è sempre lo stesso. Siamo ancora di fronte a un film imprescindibile, che taglia sulla retorica e provoca indignazione esattamente come allora, perché quel mondo sullo schermo è ancora il nostro.

I fotogrammi mostrano le conseguenze di un abbandono: quello della società nei confronti delle periferie, e di tutte le anime dannate che contengono. Un messaggio virulento che un’intera generazione di giovani rapper in Italia sembra aver recepito forte e chiaro. Un’ossessione non troppo incomprensibile, quella per La Haine e le sue strade pericolose e polverose, che ha prodotto qualcosa a partire dal nulla. 

Nous contro vous

La Haine segue le vicende di tre ragazzi delle banlieue parigine – Vinz, Saïd e Hubert –, intrappolati nel girone infernale di una vita ai margini. Novantacinque minuti di avventure casuali, di incontri-scontri con la polizia, di squarci di quotidianità conditi da aneddoti surreali, di luci notturne del centro città tra borghesi noiosi e neonazi piagnucolanti. Ad accompagnarli, il ticchettio di un orologio che corre dalle 10:38 di un mattino alle 06:01 di quello successivo. Scene sconnesse, spaccate tra il dramma e la farsa, in attesa del rintocco finale, sul limitare della tragedia già prevista nel destino collettivo. 

La Haine è un film sulla rabbia, quella di chi non si arrende a una vita di violenza e miseria – come Hubert, più razionale e forse disilluso – e quella di chi è talmente accecato dal rancore da non capire che «odio chiama odio» – come Vinz, che vorrebbe ergersi a vendicatore. Per questo La Haine è girato in bianco e nero: non è tanto una scelta di estetica, quanto di contenuto. Il contrasto infatti serve a rimarcare una realtà fatta di violenza e di opposizioni inconciliabili: i poliziotti contro gli amici del quartiere, gli adulti contro i ragazzini, gli immigrati che mangiano sui tetti contro i borghesi ai vernissage. Quei nous e vous che sui cartelloni pubblicitari si contendono il mondo a colpi di graffiti.

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Saïd modifica la scritta del cartellone con una bomboletta di vernice. Ora non dice più “il mondo è vostro”, ma “il mondo è nostro”. Fonte: IMDB.

«Sembriamo noi nello sprofondo in cui siamo»

Il film si apre con le immagini di una manifestazione. Da una parte, ragazzi senza connotazioni particolari, prima sfrontati, poi arrabbiati. Dall’altra, un esercito senza volto, soldati in assetto antisommossa che lanciano lacrimogeni e alzano manganelli.

È un atto di violenza immotivata ad aver innescato la macchina narrativa. Se le banlieue sono spazzate da un’aria di disfatta e impregnate di rancore ribollente è perché un poliziotto si è accanito su un ragazzo disarmato.

Una storia vecchissima e insieme una notizia che si ripete alla televisione fin troppo spesso. Aldrovandi, Cucchi, Taylor, Floyd, Blake. Nominare tutte le vittime sarebbe lunghissimo. Storie di uomini e donne – colpevoli o meno, poco importa – ingiustamente seviziati o uccisi da chi avrebbe dovuto proteggerli

La Haine parla di un triangolo pericoloso: quello che connette forze dell’ordine in preda al delirio di onnipotenza, media sadici e sciacalli e minoranze marginalizzate, ghettizzate in spazi dimenticati dalle istituzioni. Non è finzione, è pura realtà. La materia, Kassovitz, l’ha trovata al telegiornale: solo qualche giorno prima della stesura dello script, un ragazzo franco-congolese di diciassette anni era stato ucciso dalla polizia. Il quarto omicidio in pochi giorni.

La nostra, e quella di La Haine, è la storia di una società che precipita, ma che continua a ripetersi che va tutto bene.

Saïd e Hubert vengono trattenuti ingiustamente e malmenati senza motivo da alcuni poliziotti in borghese, in una stazione della polizia. Fonte: filmgrab.

Infiltrazioni

Con questi presupposti, non è difficile capire perché questo film abbia avuto una tale risonanza nella scena rap italiana. 

Il rap è un genere musicale nato nella strada: il canto delle periferie e dei quartieri popolari, e dei ragazzini che si trovano a fumare nello spiazzo sotto casa. Prodotto di controcultura, è un qualcosa di anti-istituzionale germinato dal basso, esattamente come La Haine

Kassovitz, infatti, rappresenta questo, con il suo sguardo onesto e nitido: i giardinetti di cemento, le vetrine abbandonate, i palazzoni anonimi. E c’è poi quel brusio inconfondibile, il leitmotiv della periferia: passi sulla terra granulosa, una marmitta nuova in lontananza, musica. 

In questo senso, la colonna sonora non può dirsi ornamentale. Perché chi ascolta – sì, ascolta – il film ha la sensazione che la musica non sia mai extradiegetica. L’hip-hop è essenziale: rimarca la poesia dello sfacelo e insieme si infiltra nella realtà delle banlieue fondendosi con la prosaicità del quotidiano. Kassovitz lo ha reso palese attraverso alcune scene di una purezza quasi cristallina. Come quella in cui riprende con un volo d’aquila una piazzetta di quartiere, mentre a una finestra DJ Cut Killer trasmette la sua Nique la police, mixando KRS One, Notorious B.I.G. e Edith Piaf. 

La Haine piace ai rapper italiani perché, probabilmente, non solo parla di esperienze familiari, ma lo fa in modo credibile. Non è un gangster movie, ma la realtà quotidiana di molti giovani: quartieri come prigioni a cielo aperto, dai quali il determinismo sociale ricorda che non c’è modo di scappare. Cicatrici conosciute, cappellini Carhartt e tute Nike, nemici noti, sogni di fuga e senso di comunità: una canzone che si scrive da sé.

Una società in caduta libera

Il primo a omaggiare La Haine, in questa mia carrellata, è Marracash, il King del rap. Il rapper milanese ha intitolato il suo secondo album Fino a qui tutto bene (2010). Queste parole fanno riferimento al famosissimo aneddoto che fa da filo conduttore a La Haine

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.» Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

La Haine, Mathieu Kassovitz, 1995.

Questa storia – una citazione quasi letterale dai Magnifici sette – è la linfa vitale del film, la metafora perfetta per parlare della nostra società. 

Marracash lo ha capito, e lo ribadisce usando il suo stile, l’intelligangsta (un cocktail di tematiche gansta, consapevolezza da conscious rap e riferimenti culturali più elevati). In questo album ci mostra una collettività sfaldata, alle prese con l’istupidimento delle masse (Stupido), politici marchettari (*roie) e il successo comprato attraverso lo scandalo (Fino a qui tutto bene). La società è una metropoli in rovina, in cui dominano conformismo e perversione e si sgretolano anche i legami più solidi, quelli stretti per strada. Una cecità selettiva nasconde alla vista la disfatta finale, mentre rimaniamo sospesi nel vuoto in attesa dello schianto, come Marracash nel video di Stupido

Citazionismo

Anche in Ragazzi madre (2016), dell’eclettico Achille Lauro, la periferia è raccontata come un’appendice dolente della società. È un luogo in cui ragazzi abbandonati si crescono l’un l’altro e, come dice un verso della title track, i pusher sono ancora bambini quando si affacciano alle finestre, come succede in La Haine.

Tuttavia, non tutti i rapper che omaggiano questa pellicola ne fanno una questione di poetica, come fa Marracash e più sottilmente Lauro. Altri si limitano al fare del citazionismo, semplice name dropping. Come a Kassovitz, anche ai rapper piace l’intertestualità e a volte la praticano in modo fine a se stesso.

In questo senso vanno citati due brani di Tedua, artista ligure maestro del drill rap. Da una parte, in Elisir abbiamo il riferimento ad Asterix, il cocainomane che vive in centro e con cui Saïd ha un debito; dall’altra, Odio chiama odio riprende la frase con cui Hubert ricorda che una ritorsione non pareggia i conti, ma innesca piuttosto uno scontro infinito.

Le parole di Vinz allo specchio – omaggio a Taxi Driver di Scorsese – diventano invece il ritornello di La Haine di Gose. Nella traccia che dà nome al suo EP, il rapper romano ci ricorda che tutte le periferie in fondo si assomigliano. Un pensiero che ci sembra quasi scontato mentre guardiamo il video di Baklava di Massimo Pericolo, in cui i versi crudi del prodigio di Varese incupiscono i fotogrammi di una vita di periferia nota, nel canonico video in bianco e nero.

Infine, un accenno a 64 bars di Johnny Marsiglia. La traccia nasce in occasione di una sfida lanciata da Red Bull e Real Talk che coinvolge i rapper del momento chiamandoli a cantare su beat distanti dalla loro musicalità. A Johnny Marsiglia, liricista siciliano, è toccata una strumentale ostica firmata dal producer Stabber, sulla quale se la cava maestosamente. Il risultato sono barre infuocate in cui La Haine diventa il filo conduttore per parlare di una carriera difficile per cui ha lottato duramente. Per parafrasare Hubert, per queste cose ci vuole il fisico.

Analogia

Oltre all’aneddoto sull’uomo che precipita e al rifacimento di Scorsese, un’altra scena si è meritata un posto d’onore nell’immaginario dei rapper nostrani: quella del parco giochi.

Un’auto carica di giornalisti si ferma su un cavalcavia, con la speranza di intervistare qualche delinquente implicato nei tafferugli. Dal basso, seduti davanti a una struttura a forma di testa di ippopotamo, i ragazzi li prendono a male parole. «Non siamo mica a Thoiry», grida Hubert, pieno di dignità. 

Cos’è Thoiry? Thoiry è uno zoo safari poco distante da Parigi, ecco cos’è. Una riserva artificiale in cui i borghesi possono guardare, a distanza di sicurezza, le bestie feroci. L’analogia, con tutte le sue implicazioni, è immediata.

Una tale carica di potenza evocativa non può rimanere inutilizzata, e infatti se ne appropria Quentin40, un giovane rapper romano che nel 2017 pubblica l’album Thoiry. La title track diventa in breve tempo un tormentone, e Quentin40 sale agli onori della cronaca come quello che tronca le parole a metà (il motivo? La ricerca di un flow più repentino, ispirato a quello dei colleghi francofoni).

Thoiry è così fenomenale, con il suo ritmo indiavolato e i barriti degli elefanti in sottofondo, che si decide di farne un remix: nel 2018 esce Thoiry Rmx di Achille Lauro, con strofe di Quentin40, Puritano, Gemitaiz e produzione di Boss Doms. Nel video, una fiumana di duemila ragazzi marcia e canta a squarciagola per le vie di Milano al grido di «sembra di stare a Thoiry, sembra di stare allo zoo». Le riprese, ovviamente, sono in bianco e nero.

Fuoritema?

Ma La Haine non ha ossessionato solo i rapper più duri e crudi e i ragazzi di strada alla perenne ricerca del dissing.

Basti pensare al rap del padovano Dutch Nazari, più vicino al cantautorato e alla slam poetry e per questo svincolato dai cliché del canto di strada. In Fino a qui, contenuto nell’omonimo EP del 2016 e realizzato insieme all’amico torinese Willie Peyote, il pretesto per citare La Haine non è tanto il malessere sociale, quanto una questione di prospettive personali. La caduta nel vuoto diventa allora la metafora perfetta per parlare del futuro incerto di chi ha deciso di rischiare tutto – una posizione stabile e un lavoro sicuro – per inseguire i propri sogni: 

E non importa, ciò che conta è l’atterraggio
Ma a ’sto giro io ho deciso che mi vivo la caduta come fosse un viaggio.

Dutch Nazari ft. Willie Peyote, Fino a qui, prod. Natty Dub.

Una canzone delicata, che tocca quelle corde che sempre toccano i brani di Dutch, e che finisce con un riferimento al deportato Grumvalski, morto di freddo perché non può rinunciare a defecare in disparte, simbolo di quanto più ineffabile e metafisico contenga La Haine. Pur usando gli stessi riferimenti, Dutch Nazari seleziona sfumature e toni diversi rispetto ai suoi colleghi, senza andare fuori tema. Allora diventa esemplare citare, a fianco al Grumvalski di Dutch, quello irriso in Come on baby di Gemitaiz e quello elettronico della raccolta Grumvalski is not dead del beatmaker Mess2.

Ma c’è anche chi spinge questa labilità di riferimento ancora oltre, con una citazione del tutto estemporanea, che rinuncia ai contenuti per fare del film una sorta di correlativo oggettivo. È quello che fa Mecna, rapper foggiano cantore della nostalgia, che in Cerotti parla della fine di una storia d’amore, consumata in una casa svuotata:

Ora che smontano le nostre luci
La nostra camera e l’ingresso
Il mio divano è dismesso e la tv ha trasmesso L’odio
Ed io ti odio per questo.

Mecna, Cerotti.


Un’eco impalpabile, eppure ancora una volta testimonianza dell’amore incondizionato che un’intera generazione di artisti continua a provare per un capolavoro lontano ma attuale ora più che mai.

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.