Deliver us from Tyler Durden: Fight Club 2 di Chuck Palahniuk

Deliver us from Tyler Durden: Fight Club 2 di Chuck Palahniuk

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Oggi, in Galleria Millon, termina un settembre fitto di fughe. La Critica d’arte e il Curatore hanno deciso di farci intravedere ciò che ci attende a ottobre, presentandoci una graphic novel che parla di fughe, ma non solo. Si tratta di Fight Club 2, scritta da Chuck Palahniuk e illustrata da Cameron Stewart, edita in Italia da BAO Publishing nel 2016. 

Non serve nemmeno specificare che è il seguito del famosissimo romanzo dello stesso autore, quello portato in auge dal film di David Fincher. Lo ricordate? Ecco, in quel romanzo il messia anarchico Tyler Durden rappresentava una via di fuga, una divinità a cui chiedere la liberazione da tutte le convenzioni della società moderna. «Deliver me, Tyler, from being perfect and complete» (C. Palahniuk, Fight Club, London, Vintage Books, 2006, p. 46.), lo pregava il protagonista.

Nel seguito, la questione si complica, e i termini dell’equazione si invertono. Ma non finisce qui: Palahniuk, come al solito, ha messo altra carne sul fuoco. La nuova storia, raccontata attraverso un diverso linguaggio espressivo, non è perciò solo un pretesto per ritrovare i vecchi personaggi. È piuttosto occasione per parlare del potere pervasivo delle idee e amplificare l’influenza tentacolare di Tyler oltre i confini della coscienza individuale.

Insomma, Palahniuk ha voluto alzare la posta in gioco. E non accenna a volersi fermare, dato che negli USA è già uscito da più di un anno il seguito del seguito, Fight Club 3. In attesa dell’uscita italiana, non ci resta che tornare a rileggere il capitolo intermedio della saga e violare per l’ennesima volta la prima regola del fight club.

Ritorno alla gabbia

Ve lo ricordate il protagonista di Fight Club, no? Quello con la personalità scissa che soffriva d’insonnia e che di notte, al posto di dormire, pianificava la distruzione della società civile? Certo, quando non stava addestrando un plotone di adepti che lo veneravano come un messia. O non era impegnato a produrre sapone con il sebo delle cosce della madre della sua ragazza, Marla Singer. O non stava tirando cazzotti in un fight club.

Bene: ora facciamo un salto a dieci anni dopo. L’anonimo protagonista ha finalmente un nome – Sebastian –, ha sposato Marla e ci ha fatto un figlio. Ora è un padre distante, un marito deludente, un impiegatuccio insignificante, un uomo di mezza età imbottito di pillole, ma almeno è mentalmente stabile. Sono finiti i deliri di onnipotenza, gli sdoppiamenti di personalità e le allucinazioni: quel lato oscuro della sua personalità sembra essersene andato per sempre. Sebastian è ritornato nella gabbia dorata da cui Tyler Durden lo aveva fatto uscire, e ci è tornato da solo.

O almeno è quello che crede. Sì, perché una misteriosa esplosione – una delle tante che aleggiano sulla vita di Sebastian – interrompe improvvisamente l’idilliaca alienazione borghese. Nel rogo, oltre all’apparenza di normalità e al grigiore di tutti i giorni, scompare anche Junior, il figlio della coppia. Allora Sebastian e Marla si mettono sulle tracce del bambino rapito, scegliendo due cammini diversi, ma con un’unica certezza: la colpa può essere solo di Tyler. Tyler Durden è tornato. O forse non se n’è mai veramente andato.

Un fotogramma da “Fight Club”, film del 1999 diretto da David Fincher, con Edward Norton nei panni del narratore (sinistra) e Brad Pitt nei panni di Tyler Durden (destra). Fonte: Movie-Screencaps.com.

Evasioni e fughe

In Fight Club, l’evasione è la tematica predominante. In fin dei conti, si tratta del cammino accidentato di una mente instabile che vuole fuggire dalla prigione in cui la società iper-capitalistica confina gli individui. Tyler Durden è una forma di iper-compensazione creata da una coscienza alienata. È l’incarnazione di un desiderio sopito di anarchia, distruzione e nichilismo, è la risposta estrema all’insofferenza nei confronti di uno status quo percepito come opprimente. Allontanarsi dalla società, raccogliere le forze necessarie per rifondarla e ritornarvi con intenti distruttivi: questo è il mito di purificazione di Tyler Durden.

Anche Fight Club 2, in un certo senso, parla di fughe. La fuga, però, non è più quella dal proprio appartamento ammobiliato e dalla monotonia del proprio lavoro. Qui fuggire significa abbandonare le vecchie consuetudini: bloccare l’ingranaggio che tiene in moto il carosello della personalità scissa.

Come fare l’upgrade a Tyler Durden

Dopo il finale di Fight Club, Tyler non è morto; al contrario, è rimasto nel mondo come una presenza invisibile e insidiosa, diventando più pericoloso che mai. La sua spietatezza e la sua malvagità si manifestano in tutta la loro potenza, e la fuga dalla civiltà che propone sembra ancora più distruttiva e mortifera. Con il beneplacito di un’intera generazione di nichilisti, che è pronta a rinunciare alle commodities della società contemporanea per seguire il richiamo dell’invisibile pifferaio.

Ma questa non è più la fuga di Sebastian. Il protagonista di Fight Club ha già squarciato il velo di Maya. Siamo oltre: Sebastian ha ridefinito la sua scala di valori e sa che non può permettere a Tyler di tornare a prendere il controllo. Con l’aiuto di pillole e psicanalisi, la fuga per sopravvivere è quella da Tyler Durden, non di Tyler Durden. Ma la questione sembra più complicata del previsto. «Non sono gli umani a coltivare le idee. Al contrario, sono le idee a coltivare noi.» (C. Palahniuk, C. Stewart, Fight Club 2, Milano, BAO Publishing, 2016, pp. 159-160.)

Ecco il grande pregio – e anche il grande rischio – di questa graphic novel: è l’upgrade che fa fare alla figura di Tyler Durden. Ora non è più un problema esclusivamente di Sebastian, ma una sorta di maledizione genetica che da tempi immemori si muove nel suo albero genealogico. Non si tratta più di una delle personalità scisse di un singolo individuo, ma di un’idea, di un archetipo, di un meme. E le idee, oltre a potersi spargere come un’epidemia, come direbbe Carl Gustav Jung, non muoiono mai.

Un graffito dedicato a Tyler Durden. Foto di Paul Sableman, fonte: Flickr.

Effetto Werther

Questo ci porta a parlare di quello che forse è l’aspetto più interessante del romanzo, ossia la comparsa di Chuck Palahniuk tra i personaggi. Ecco Palahniuk in una tavola del fumetto che lo ritrae nel suo soggiorno, accerchiato da un gruppo di consulenti, intento a stabilire l’andamento della narrazione. Eccolo mentre riceve telefonate da Marla o da altri dei suoi personaggi, che lo cercano per capire come muoversi. Ed eccolo intervenire nel finale per difendere le sue decisioni dall’orda degli appassionati di Fight Club, indignati per una conclusione che è tutto fuorché fan-service.

Questa apparizione è molto più che la solita trovata stravagante dell’autore, perché è funzionale. Fight Club 2 parla di idee, di archetipi, di mode. Non a caso, tra i tanti riferimenti a mitologia e pop culture, viene citato I dolori del giovane Werther di Goethe. Un romanzo che ha portato migliaia di giovani in tutta Europa a osannarne il protagonista e, acriticamente, emularlo fino al suicidio. Un’opera che, già nell’Ottocento, ha messo in luce gli aspetti più ambigui del rapporto tra moda e psicologia delle masse.

Non c’è dubbio che Palahniuk ci voglia dire che qualcosa del genere è capitato anche al suo romanzo, o meglio, alla sua trasposizione cinematografica. Fight Club, uscito in sordina nel 1996, per mediazione del film del 1999 con Brad Pitt è diventato parte dell’immaginario americano. Eppure, durante il processo di assunzione di Tyler Durden nell’olimpo della pop culture, il romanzo è stato dimenticato o, peggio, frainteso.

Il personaggio Chuck

Ecco, quindi, la fuga più clamorosa: quella dell’autore che sente di aver perso il controllo dei suoi personaggi e di non essere riuscito a trasmettere il suo messaggio. Palahniuk si fa figura bidimensionale per cercare di riappropriarsi della sua materia e di spiegarci come stanno veramente le cose. Vuole ribadire chiaramente che il suo giudizio su Tyler non è mai stato positivo, che la sua figura è di certo affascinante, ma profondamente malvagia e squilibrata. Che l’estremismo – come faceva notare nel finale del romanzo – non è la soluzione. Il culto di Tyler Durden ha in sé qualcosa di sinistro, ed è lampante quando si presta la giusta attenzione alle parole di Palahniuk.

L’autore cerca di salvare la sua creazione, di strapparla al culto di cui è diventata oggetto. Tuttavia, è anche consapevole che, come ogni meme, ormai il suo personaggio vive di vita propria ed è manipolabile in direzioni di cui non può controllare il progresso. Per questo, nel finale che orchestra nonostante le lamentele dei fan, sarà comunque lui a uscirne sconfitto. Le idee – e le mode – hanno sempre la meglio.

Chuck Palahniuk. Foto di AlexRan, fonte: Wikimedia Commons.

Nuovo medium, vecchio Chuck

Se il personaggio Chuck non ne esce poi così bene, all’autore Palahniuk le cose vanno decisamente meglio. Il primo esperimento con il nuovo linguaggio espressivo del fumetto, infatti, è promettente. L’ironia immaginifica e malefica di Palahniuk si lascia trasporre facilmente. La materia conserva il suo marchio di qualità, anche in una diversa confezione. L’obiettivo è sempre quello: spiazzare, amalgamando sacro e profano. Alle scene crude di sesso e violenza a cui lo scrittore americano ci ha abituati si sovrappongono e inframmezzano i singolari riferimenti al mito, alla filosofia e alla psicologia. Il cuore pulp pulsa ancora del battito millenario della mitologia.

Il gusto per il citazionismo, ovviamente, si manifesta anche nell’uso calibrato della parodia, altro espediente per cui Palahniuk è famoso. Non esiste miglior modo per raccontare l’assurdità della realtà e quel misto di indifferenza e di irrazionalità di chi la abita. Una realtà che, anche in Fight Club 2, è sfaccettata, complicata, frammentaria, tutta da raccontare per giustapposizioni e attraverso un godibilissimo montaggio alternato. Una realtà che è anche ricorsiva e maniacale, e che Palahniuk tratteggia come un catalogatore di meraviglie barocche. Non per niente, la sua figura retorica preferita è l’enumerazione nelle sue varie forme – la litania, l’accumulazione, la reiterazione – e anche qui non si risparmia.

Palahniuk DOC

Insomma, non importa quale sia il medium, emergerà sempre la voce inconfondibile di Palahniuk. Questo è il suo vero pregio, più che l’inventiva folle e senza briglie – che forse nel finale un po’ arranca, vista la banalità della soluzione.

Una voce che, dopo tutti questi anni, Palahniuk si può permettere di alzare, quando le cose non vanno come aveva desiderato. E allora la matita di Stewart non solo si mette a disposizione delle stravaganze della penna di Palahniuk, ma diventa un megafono colorato e altrettanto folle. Perché Stewart, assecondando il suo sceneggiatore e compiacendolo nel suo desiderio di autonomia, rielabora completamente i connotati dei protagonisti. Ed ecco che, dopo quasi vent’anni, finalmente Tyler Durden non ha più il volto di Brad Pitt. Tyler Durden è libero ora di essere ripensato – e demolito, si spera.Insomma, diamo a Cesare quel che è di Cesare. E per una volta, anche se forse è fuori moda parlare di autorialità nell’epoca del postmoderno, prestiamo orecchio a ciò che ha da dirci l’autore. Potrebbe valerne la pena.

Rielaborazione grafica a cura di Sabrina Poderi.