Il viaggio dell’eroe: il cuore archetipico di ogni avventura

Il viaggio dell’eroe: il cuore archetipico di ogni avventura

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Ogni viaggio è un’esperienza unica. Infatti Galleria Millon ha dedicato un intero mese all’argomento nella speranza di esaltarne la vastità e complessità.
Ma se contravvenissi questo assunto e sostenessi che ogni viaggio ha lo stesso nucleo intoccabile, invariabile e spesso invisibile? E che quello stesso nucleo vivifica ogni storia narrata, dal mito degli Argonauti all’ultimo episodio di The Boys? Di questa arcana verità ci parlano “il viaggio dell’eroe” e gli studi di un curioso professore americano. 
Quella che segue è una storia di miti e sceneggiatori hollywoodiani, di riti di iniziazione e di epopee intergalattiche. Una storia di costanti, variazioni sul tema, linee spezzate e circonferenze: gli elementi di una narrazione che sta alla base di ogni narrazione mai esistita.

Centinaia di miti nella penna di un unico uomo

“Il viaggio dell’eroe” è uno schema antichissimo, ma la sua formulazione concettuale non ha nemmeno ottant’anni. La dobbiamo all’intuito di Joseph Campbell, uno studioso statunitense che ha dedicato la sua vita alla comparazione di patrimoni mitici provenienti da tutto il mondo. Oltreoceano, Campbell si è guadagnato un’aura mitica. La sua opera più importante – L’eroe dai mille volti, pubblicata nel 1949 per Pantheon Books – è considerata unanimemente un classico moderno. In questo libro densissimo e illuminante Campbell parla diffusamente di quella struttura invisibile ma fondante che sostiene non solo i racconti mitici, ma in generale ogni tipo di narrazione: il monomito, o “viaggio dell’eroe”.

Il nucleo immutabile di cui parla Campbell è una catena di simboli che, arricchita da particolari contingenti – dovuti alle precise coordinate geografiche, storiche e culturali che generano il mito –, compone il corpus di ogni tradizione mitica: dalle saghe babilonesi ai Vangeli cristiani, dal folklore polinesiano alle epopee greche. 

La ragione della sua esistenza è veicolare un’affermazione generale sulla natura umana attraverso situazioni e ruoli riconoscibili. Il viaggio dell’eroe, in un linguaggio impersonale e in forme classiche, racconta la verità sulla vita quotidiana di ogni uomo. Infatti, ha il compito di offrire uno schema di risoluzione che si adatta tanto ai piccoli problemi quanto alle grandi difficoltà di ogni giorno. L’unico prerequisito necessario è la disposizione a lasciarsi catturare dalla narrazione.

Joseph Campbell, padre della teoria sul monomito. (fonte: Wikimedia Commons)

Un maestro disubbidiente

Con la sua teoria, Campbell ha cercato di conciliare due ambiti di studio apparentemente distanti. 
Da una parte c’è la sociologia. Il viaggio dell’eroe, infatti, è in stretta relazione con il rito di passaggio: il primo ricalca la tripartizione essenziale del secondo. Entrambi prevedono la separazione – dalla comunità d’appartenenza –, l’iniziazione – in un territorio ostile in cui l’iniziato, da solo, affronta delle prove – e il ritorno – dell’individuo reintegrato con un nuovo status. Il monomito, perciò, svolge un’importante funzione sociale: raccontare la storia di una transizione essenziale, codificata e non traumatica. 

Dall’altra, invece, c’è la psicanalisi. Il debito più consistente di Campbell è nei confronti di Carl Gustav Jung, l’allievo disubbidiente di Sigmund Freud. Infatti, benché la psicanalisi freudiana eserciti un certo influsso sul suo pensiero, Campbell intuisce che la teoria dell’inconscio personale di Freud non è sufficiente per spiegare il monomito. Subentra allora la nozione junghiana di inconscio collettivo: si tratta di un bacino di contenuti impersonali e antichissimi che parla a noi attraverso i secoli nella lingua dei simboli e della fantasia. Da qui provengono gli archetipi – ruoli e situazioni generalmente riconoscibili – e qui possiamo trovare quei motivi stranamente familiari che accomunano l’Amleto, Il Re Leone e Sons of Anarchy.
La psicanalisi, come aveva già scoperto Jung, è la grammatica dei miti. Miti che non sono altro che sogni coscienti, costruiti dalle singole culture su un’intelaiatura – il monomito – che ci è invece fornita dall’inconscio.

Un allievo inaspettato

L’eredità di Campbell è stata raccolta, inaspettatamente – o forse no? –, da Christopher Vogler, uno sceneggiatore hollywoodiano. 
Vogler legge L’eroe dai mille volti – come moltissimi suoi colleghi della USC School of Cinematic Arts di Los Angeles – e ne rimane folgorato. Così folgorato che decide di approntare un manuale di sceneggiatura sulla base del monomito campbelliano: Il viaggio dell’eroe. Le nozioni di Jung e quelle di Campbell vengono piegate fino a diventare indicazioni per scrivere un buono script in tre atti. Dal mito si arriva alla narrativa in senso lato, passando per la sceneggiatura, in modo assolutamente naturale. E questo perché, secondo Volger, Campbell «ha messo nero su bianco le regole non scritte della narrazione […]» (C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Roma, Dino Audino Editore, 2010, p. 7). Semplicemente, e quasi inconsapevolmente.

Mitologia creativa

Vogler ha avuto un’intuizione brillante. Oggi forse nessuno crederà più ai miti, ma l’uomo non può permettersi di rinunciare alla potenza vitale del messaggio del monomito. Per questo continuiamo a giocare con esso.

C’è una storia, in questo senso, che fa proprio al caso nostro. Siamo negli anni Settanta. Un altro studente della USC si innamora del libro di Campbell. È un film-maker, è appassionato di folklore e di psicologia, e gli piacerebbe costruire una mitologia moderna. Cerca di combinare il viaggio dell’eroe con immagini e simboli che riflettano il suo tempo, in particolare la questione della persistenza dell’umano in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia. Prova a scrivere seguendo pedissequamente i dettami di Campbell, e fallisce. Si rimette al lavoro, stavolta ignorandoli, e quando ha finito si accorge che inconsciamente li ha rispettati tutti. Nel 1977 esce Star Wars, e quel ragazzo, che si chiama George Lucas, ha appena iniziato a raccontare la sua storia. Poi succede una cosa incredibile: Campbell si interessa a Star Wars. Lo studia, ne parla. Tra il 1985 e il 1986 tiene una serie di interviste nella biblioteca dello Skywalker Ranch di Lucas, in California, che vengono raccolte in una pubblicazione intitolata Il potere del mito.

Non c’è dubbio: con Star Wars è nato un mito moderno, un esempio di quella che Campbell chiama “mitologia creativa”. È ciò che accade oggi quando un artista si mostra capace di produrre significati di caratura universale a partire da simboli personali. 
Allora non ha senso pensare che la mitologia sia morta: si è solo trasferita al cinema.

Da sinistra, C3PO, Luke Skywalker, Obi-Wan Kenobi e R2D2, dal film Star Wars. (fonte: Star Wars)

Addio e arrivederci

Ma cos’è di preciso il viaggio dell’eroe? Si tratta di un’avventura in tre tempi, vissuta da un individuo che per semplicità chiameremo “eroe”.

Il primo atto è quello della partenza.
Prima della partenza, c’è il mondo ordinario: la realtà di tutti i giorni, il luogo in cui l’eroe si sente al sicuro e in cui l’abitudine regola il corso dell’esistenza. Per Luke Skywalker, ad esempio, il mondo ordinario è la fattoria dello zio Owen, su Tatooine.

È in questo spazio che l’eroe è raggiunto dalla chiamata all’avventura, l’evento catalizzatore che dà l’abbrivio al viaggio. Può essere una spinta interiore – un’urgenza o una costrizione – o la proposta di un Messaggero – come il droide R2D2, con la disperata richiesta d’aiuto della principessa Leia. A livello psicologico, la chiamata rappresenta il risveglio dell’Io che vuole cambiare il suo stato.

Tuttavia, il desiderio di novità è controbilanciato dall’ansia da distacco. Per questo, almeno inizialmente, l’eroe rifiuta l’ignoto. Non sa cosa aspettarsi, e preferisce trovare scuse e rifugiarsi nella routine. Ciò che il protagonista deve capire è che ormai l’Io è pronto al cambiamento: non si può sfuggire al richiamo dell’avventura.

Dopo aver accettato il proprio destino, l’eroe riceve la sua prima ricompensa: l’aiuto sovrannaturale. Spesso si manifesta nel ritrovamento di un oggetto magico – una spada laser? – ma più frequentemente consiste nell’incontro con il Mentore, una figura archetipica che incarna il sostegno della personalità inconscia. Esattamente come il jedi Obi-Wan Kenobi, un bravo Mentore condivide conoscenza, fornisce protezione, infonde fiducia nel suo pupillo e lo prepara alle sfide che verranno.
L’aiuto sovrannaturale premia la buona volontà dell’eroe ed è una risorsa indispensabile per affrontare la prima prova: il superamento della prima soglia, che separa il mondo ordinario dallo spazio sconosciuto dove avrà luogo l’avventura. A volte questa zona liminale è sorvegliata da un Guardiano, che anticipa i pericoli che attendono oltre il confine. Altre volte l’eroe è condannato a sprofondare: nel ventre della balena, negli inferi, in una cavità buia. Altre ancora il superamento è una questione puramente mentale. Ciò che è certo è che, oltrepassando la soglia, l’eroe ha detto addio a tutto ciò che era a lui noto e familiare.

Sprofondare nell’avventura

Inizia il secondo atto, quello dell’iniziazione.
L’eroe si ritrova in un mondo sconosciuto e incomprensibile, il mondo straordinario. Qui, appena oltre la soglia, è chiamato ad affrontare alcune prove per imparare a padroneggiare le leggi che controllano la nuova realtà che lo ha inghiottito. È anche una buona occasione per studiare la fauna locale e incontrare sconosciuti tra i quali potrebbe nascondersi un alleato o un nemico potenziale. L’eroe deve capire da che parte schierarsi, come capita a Luke nella Cantina, quando conosce Han Solo e viene a sapere della sua diatriba con il viscido Jabba The Hutt.

Una volta strette le alleanze, comincia l’avvicinamento alla caverna più profonda: l’eroe percorre il cammino che congiunge la prima soglia al centro nevralgico del mondo straordinario. In questa fase, vanno portati a termine gli ultimi preparativi prima della sfida decisiva: si fanno provviste, si approntano strategie, si prende congedo da amici e amanti. Altri, come Luke e Han, si camuffano e cercano di avvicinarsi il più possibile al loro obiettivo – in questo caso, la Morte Nera e la principessa Leia.

Schema lineare.

Nella caverna più profonda l’eroe affronta la prova centrale, la crisi al culmine del secondo atto. Sono previsti diversi tipi di avversari, che comportano differenti imprese: lo scontro con l’Ombra, quell’archetipo che incarna tutti gli aspetti della personalità che sono stati respinti nell’inconscio personale; l’incontro con la dea, ossia il contatto ambiguo con l’Anima, l’archetipo dell’alterità incomprensibile che proiettiamo sull’altro sesso; la lotta con una figura genitoriale, che rappresenta l’incarnazione di un livello di consapevolezza psichica non ancora accessibile e per questo spaventoso. Ciò che è essenziale è che l’eroe conosca la morte, letterale o metaforica. A volte basta un’esperienza di trapasso transitorio, come accade per Luke, che nel compattatore dei rifiuti viene dato per morto per qualche interminabile secondo.

Il sacrificio, inevitabile, rappresenta la morte del vecchio Io, con le sue limitazioni e le sue paure, che deve lasciare il posto al nuovo Io. L’acquisizione di questa consapevolezza, al di là dei premi materiali e dei nuovi legami, è la vera ricompensa per l’impresa affrontata.

Casa dolce casa

La storia si conclude con il terzo atto, quello del ritorno.
Il mondo straordinario non è una realtà abitabile, ma di transito. Per questo l’eroe deve invertire la rotta verso casa – o per lo meno verso il mondo ordinario. Chi si rifiuta di tornare per condividere la ricompensa tralascia l’imperativo sociale del monomito e interrompe il suo cammino.

Per chi prosegue, è previsto il superamento della seconda soglia – il climax della storia – che comporta una nuova esperienza di morte, stavolta suprema, e di resurrezione. Esattamente come succede a Luke, quando sfugge ai laser di Darth Vader, mentre cerca di distruggere la Morte Nera a bordo del suo X-Wing.

Se sopravvive, l’eroe è giunto al termine del suo viaggio. Ma non è finita. La vera impresa non è tanto riuscire a sfuggire all’ira dell’Ombra sconfitta – che spesso complica la fuga – quanto tornare nel mondo ordinario e saper raccontare la propria esperienza a chi non è mai partito. Il più grande ostacolo è conservare il ricordo e renderlo fruttuoso, applicare le conoscenze acquisite nel mondo dell’impossibile per usarle in quello della quotidianità. Allora non è eroe chi torna con l’elisir, ma chi sa farne buon uso, per sé e per la comunità, nella grigia monotonia di tutti i giorni.

Schema circolare.

Life is a flat circle

Come dice Rust Cole in True Detective, «life is a flat circle».
È per questo che il monomito non rende se visualizzato tramite una linea, poco importa se retta o spezzata in corrispondenza dei punti di tensione. Anche se per comodità espositiva Vogler rappresenta i tre atti, e i relativi picchi drammatici, orizzontalmente, il monomito è e rimane un cerchio – un segmento che inizia e finisce in se stesso – perché il punto di arrivo di un viaggio è sempre il punto di partenza di quello successivo. All’estremo limite di una narrazione c’è sempre spazio per un innesto, il capo di un filo spezzato al quale allacciare un’altra trama.

Ecco perché il viaggio dell’eroe è una circonferenza: perché prevede – pretende! – la ciclicità. Perché bisogna immergersi, tornare a galla e poi rituffarsi tra le onde. Camminare, fermarsi e poi riprendere a correre. Vivere, morire e poi ritornare in vita.

Illustrazione a cura di Francesca Pisano.