Una storia d’amore infinita: i colori e l’editoria

Una storia d’amore infinita: i colori e l’editoria

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Lo sapevate che l’idea di abbinare un colore a un preciso genere letterario nasce solo a fine Ottocento, con la letteratura di consumo? Siamo agli albori dell’industria culturale e si sta formando (lentamente) un nuovo pubblico di lettori da intrattenere. Cominciano a proliferare forme di narrazione confezionate senza velleità artistiche, esclusivamente per vendere, come i feuilleton e, più avanti, i fotoromanzi. Lo stile è piano, le storie mai ambigue, il prodotto economico e serializzato. Uno degli imperativi è la riconoscibilità. E qui entra in gioco il colore

I nuovi editori, ora imprenditori, intuiscono che abbinare colore e genere letterario è una buona tattica di marketing. Se ben utilizzato, il colore funziona come un segnale semplice e inequivocabile. Grazie al solo colpo d’occhio, il lettore individua subito ciò che fa al caso suo, prima ancora di leggere il titolo del libro. I colori non solo rendono i libri riconoscibili, ma li serializzano, e questo permette di fidelizzare il consumatore. Un trionfo.

Quindi, direte voi, siamo di fronte all’ennesima trovata per vendere libri di scarso valore letterario, a prescindere dal loro contenuto? Non solo. La storia d’amore tra i colori e l’editoria è molto più complicata di così. Lasciate che sia la Divulgatrice a mostrarvi il perché, con l’aiuto di qualche coloratissimo esempio. 

I generi: dammi tre colori

L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui il genere poliziesco viene identificato con un colore: il giallo. Il colpevole? Una collana editoriale talmente iconica da cambiare il nostro vocabolario. È quella dei Libri Gialli di Mondadori, ideata da Lorenzo Montano e pubblicata a partire dal 1929. Il genere, in sé, non nasce sicuramente ora. Ma è adesso che diventa riconoscibile nell’immaginario collettivo, grazie alle copertine color giallo cinerino, su cui troneggiano titoli in nero e immagini racchiuse in rombi dal contorno rosso. Il genere poliziesco viene ufficialmente ribattezzato. E al contrario di altre imprese a colori fallite, come quella dei Libri Azzurri e dei Libri Verdi Mondadori, il giallo è destinato a non sbiadire mai più.

Un altro colore notoriamente associato alla letteratura di genere è il rosa. Non occorrono trattati sociologici per comprendere le ragioni che lo legano alle storie d’amore raccontate dal punto di vista femminile. Forse, però, vale la pena di citare un corrispettivo dei Libri Gialli più o meno coetaneo. È un’iniziativa dell’editore Salani, che converte la sua generalista Biblioteca della Signorine in una serie di romanzi rosa. Cambia il look – ora, sotto la sovraccoperta illustrata, le copertine telate sono rosa – e anche il nome, in I Romanzi della rosa. Ed è così che il rosa diventa ancora più rosa.

Poi c’è il nero. Noir è una denominazione coniata in Francia nel 1946 per parlare dei film americani tratti da romanzi hardboiled. Il genere, cinematografico e letterario, è simile al poliziesco, ma più cupo e dai risvolti psicologici più accentuati. Qualcuno associa il termine ai romanzi gotici inglesi, ma, ancora una volta, nella sua diffusione c’è lo zampino di un’iniziativa editoriale. Francese, stavolta. È la Série noire di Gallimard, con le sue copertine nere. Altri paperback, per un pubblico che ama le distinzioni per genere.

medusa mondadori
Tre titoli tra quelli usciti per La Medusa di Mondadori nel 1933. “Il grande amico” di Alain-Fournier è il primo numero della collana.

Le collane: la verde Medusa di Mondadori

Tuttavia, i colori nella storia dell’editoria non sono destinati ad associarsi esclusivamente ai generi letterari. Infatti, ci sono altri tipi di imprese da prendere in considerazione.

Nel 1933, ad esempio, Arnoldo Mondadori decide di lanciare una collana di narrativa straniera contemporanea, in barba all’autarchia fascista: La Medusa. Trentotto anni dopo, la collana ha all’attivo 535 opere, diciotto scrittori premi Nobel e traduttori del calibro di Elio Vittorini, Cesare Pavese e Corrado Alvaro. Un successo figlio di un’idea di partenza semplice e immediata: offrire contenuti eccellenti in un oggetto tanto maneggevole quanto esteticamente apprezzabile

La veste si deve al progetto di Giovanni Mardersteig, già designer per Albatross Book. Il formato è oblungo; sulla copertina, una spessa cornice verde bordata di nero racchiude un rettangolo bianco. Su di esso, i testi capeggiano nel carattere Semplicità serie 501, un sans serif delle fonderie Nebiolo. Più in basso, si vede una leggerissima testa di Gorgone alata, logo disegnato da Bruno Angoletta. Un connubio perfetto di geometricità, eleganza e morbidezza.

Nemmeno il bando della letteratura alleata ed ebrea voluto dai fascisti riesce a fermare questa collana che, sopravvissuta alla guerra, ritorna ancora più forte nel dopoguerra. Di questi anni è la memorabile Serie Hemingway, una sottocollana di titoli scelti personalmente dallo scrittore americano, abbellita da un logo personalizzato. Il successo della collana è indiscusso, tanto che se ne replica il format.

Ma tutto ha una fine. Arrivano gli anni Settanta, e con loro il declino delle collane editoriali. La Medusa chiude definitivamente nel 1971. Ma il sentore della decadenza era già nell’aria: da quando si era rinunciato al verde ipnotico delle copertine per riempirle di insipide fotografie.

penguin
A sinistra, la copertina Penguin prima dell’intervento di Tschichold. Al centro, un’edizione di “The Great Gatsby” del 1949 che segue il restyling del designer svizzero. A destra, un’edizione speciale di “1984” di Orwell disegnata da David Pearson, rilasciata nel 2013.

Le collane: arancio Penguin

Un’altra impresa dello stesso tipo, ma ancora più celebre, viene avviata in quegli anni nel Regno Unito. Nel 1935, infatti, Sir Allen Lane fonda la Penguin Books, una sigla editoriale sotto l’egida di The Bodley Head. Nasce con un obiettivo ambizioso: fornire classici in formato paperback al prezzo di un pacchetto di sigarette. Oggi è parte di uno dei colossi dell’industria editoriale, e i suoi libri abitano l’immaginario collettivo mondiale. Al di là delle strategie di mercato, il merito è sicuramente del suo progetto grafico, e in particolare di un colore: l’arancione.

L’iconica veste grafica della Penguin nasce già negli anni Trenta, grazie al designer Edward Young. Young non solo disegna il celebre logotipo con il pinguino dello zoo di Londra, ma si inventa anche la tripartizione delle copertine. Tre bande orizzontali: quella centrale, con titolo e autore in Gill Sans, è bianca, mentre le due laterali, con i dati di edizione, sono colorate. A Lane non piace l’idea di usare immagini sulle copertine – le trova volgari –, così Young propone una classificazione per colori. Verde per le storie di detective, blu per le biografie, e arancione per la fiction

La vera consacrazione, però, avviene solo negli anni Quaranta con Jan Tschichold. Coerentemente con la sua formazione modernista, Tschichold interviene in modo semplice ma decisivo, stabilendo alcune regole standard che interessano layout, allineamento e impaginazione dei testi. Il risultato è un prodotto pulito, minimalista e raffinato. Quello che ancora oggi in molti abbiamo nella nostra libreria.

einaudi
“L’io e l’inconscio” di Jung, “Le radici storiche dei racconti di fate” di Propp e “Il ramo d’oro” di Frazer sono rispettivamente il secondo, il settimo e il quattordicesimo numero della collana viola, usciti tra il 1948 e il 1950.

Le collane: il viola cupo di Einaudi

La storia della Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, la cosiddetta “collana viola” di Einaudi, è straordinaria. Anche se nel catalogo dell’editore torinese non è l’unica a essere nota grazie al colore della copertina – si pensi solo alla collana azzurra degli studi psicologici –, non c’è davvero confronto con la viola. Una gestazione infinita, cambiamenti di catalogo in corsa, fautori e autori indimenticabili. Compromessi, ritrattazioni, scandali. Tragedie. Questa storia ha tutto, pure una copertina memorabile.

La collana viola nasce nel 1942 dal carteggio tra Cesare Pavese, direttore Einaudi, e l’antropologo Ernesto de Martino, suo bizzoso consulente. L’obiettivo è creare una collana di studi antropologici ed etnografici, all’epoca ancora ignoti in Italia, per un pubblico non specializzato ma comunque colto. Nel catalogo si susseguono mostri sacri del sapere antropologico come Jung, Lévy-Bruhl, Kerényi e Frazer. 

I problemi iniziano da subito: innanzitutto, il primo volume esce solo nel 1948. Poi de Martino comincia a lamentarsi della collana. Lui la voleva scientifica e storicizzata, mentre si ritrova tra le mani un magma di opere eterogenee accomunate dalla simpatia per l’irrazionalismo e il primitivismo. Mentre i libri vanno a ruba, i giornali di sinistra insorgono per gli ingenui scivoloni ideologici. Pavese si suicida, de Martino se ne lava le mani. Ma intanto si è fatta la storia. 

Di tanto travaglio rimangono solo i libri. Con le loro copertine semplici, in linea col progetto grafico delle altre collane dei Saggi Einaudi: un riquadro bianco centrale, attorno al quale corre una cornice viola scuro. Titolo e autore in Bodoni; sotto, il logo dell’editore. Apparentemente, è tutto qui.

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Le “Prolegomini allo studio scientifico della mitologia” sono un lascito della collana viola di Einaudi. Dopo essere state pubblicate con una copertina ibrida che combina la cornice viola con il bianco e nero di Boringhieri Editore, escono per l’Universale scientifica Boringhieri con una la copertina di Mari. A destra, un’opera di Wittgenstein pubblicata dopo che la collana ha cambiato nome.

Le collane: nero come l’Universale scientifica Boringhieri

La vita della collana viola è breve. Poco meno di dieci anni dopo, l’intero catalogo già non è più parte di Einaudi. Se l’è portato via Paolo Boringhieri, suo ex redattore, che nel 1957 fonda la sua casa editrice. 

La neonata Boringhieri Editore si occupa di scienza: da quelle naturali a quelle filosofiche ed economiche, fino all’intero settore delle discipline umanistiche. Il catalogo di partenza è un lascito Einaudi. Boringhieri eredita la Biblioteca di cultura scientifica, la Biblioteca di cultura economica, i Manuali e, ovviamente, la collana viola. Il target è sempre quel pubblico colto e curioso al quale inizialmente si era rivolto Pavese.

Tra le collane più celebri di questo editore va sicuramente menzionata l’Universale Scientifica. Nasce nel 1965 per raccogliere opere di medesimo valore, ma eterogenee per ambito di appartenenza. Per non minare una coesione già così fragile, serve una veste grafica capace di dare unità al progetto; per questo viene coinvolto il designer Enzo Mari

La copertina si compone di una struttura tripartita a fasce orizzontali. In quella centrale, Mari posiziona un’immagine coerente – scelta dopo aver accuratamente letto l’opera interessata – che viene ripetuta per dodici volte con ingrandimenti, sovrapposizioni e leggeri slittamenti. La geometricità della ripetizione rimanda alla complessità del processo scientifico, che prevede fasi di scomposizione e ricomposizione. Attorno all’immagine figurano due fasce nere, sulle quali sono riportati in Helvetica il nome dell’autore, il titolo e il logo della Boringhieri. 

Già nel 1987 la casa editrice ha cambiato nome, diventando Bollati Boringhieri, e con lei lo ha fatto anche la collana. Se c’è una cosa che, invece, non è cambiata sono le copertine dell’Universale Bollati Boringhieri, che con i loro dorsi bianconeri ancora abbelliscono gli scaffali delle librerie. 

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Le “Poesie” di Tjutčev inaugurano la Collana di poesia Einaudi, nel 1964. Le “Poesie erotiche” di Valduga escono nel 2018. Il progetto grafico si mantiene inalterato per più di cinquant’anni.

Le collane: il bianco della poesia

Ma torniamo ancora una volta in Einaudi. Siamo nel 1964 e Giulio Einaudi, su suggerimento dello slavista Angelo Maria Ripellino, si inventa un’altra collana a colori. O quasi. Stavolta si tratta della bianca, la Collana di poesia Einaudi. A oggi, è considerata una sorta di miracolo editoriale: ha venduto due milioni di copie, con una media di quarantamila l’anno, di un genere che si considera scarsamente remunerativo. Quasi cinquecento titoli, che includono i nomi imprescindibili della poesia mondiale, e tra i quali figurano traduttori di eccezione come Fenoglio, Praz e Quasimodo.

Il progetto grafico è affidato a Bruno Munari, che ormai da qualche anno si occupa delle copertine e dei materiali pubblicitari della casa editrice torinese. La poesia non vende. Bisogna quindi costringere il lettore a calarsi nella lettura e catturarlo fin dal primo contatto. Munari ha un’intuizione che colpisce nel segno: mettere sulla copertina bianca, in Garamond, un assaggio dei versi che stanno all’interno. Sopra, separati da una linea voluta da Einaudi, titolo e autore in Helvetica. Ne risulta un oggetto prezioso, di piccolo formato, chiaro e pulito. Un design vincente di valore duraturo, che, nonostante la longevità della collana, non ha mai subito un restyling. Al contrario, ha saputo replicarsi sulle copertine delle Vele, la nuova collana di saggi brevi Einaudi. 

Un’arma trasversale

La bianca, come le altre collane citate prima di lei, è riuscita a realizzare un connubio benedetto: quello tra una bellezza innegabile e un aspetto inconfondibile. Questo, anche grazie alla scelta di un colore predominante su tutti gli altri. A ben vedere, l’uso del colore si dimostra essere un’arma veramente trasversale. Tutti i bravi editori, anche quelli che oltre alle mire commerciali vantano manifesti ideologici, si affidano ai colori per attirare il proprio target di riferimento. L’utilizzo di campiture monocromatiche ricorrenti all’interno di un progetto grafico curato si rivela il fondamento e insieme l’ambizione dell’editoria di pregio. Ed è per questo che oggi la storia del libro non conosce solo il giallo, il rosa e il nero, ma tutte (o quasi) le sfumature dello spettro cromatico.

Illustrazione a cura di Francesca Pisano.