Nikolin Lasku, Natività umida: racconto su telone cerato

Nikolin Lasku, Natività umida: racconto su telone cerato

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La Guida ha deciso di chiudere il mese di febbraio esponendo in Galleria un nuovo racconto inedito, Natività umida di Nikolin Lasku.
La Guida ha definito Nikolin “il Pajtim Statovci nostrano”, forse perché è rimasta incantata dalle Transizioni, romanzo dell’autore albanese, o forse perché Nikolin e Pajtim condividono un passato simile.

Natività umida è il racconto della fuga di una famiglia dal proprio Paese d’origine, l’Albania, verso un futuro migliore – forse in Italia – ma ignoto. È la fuga di un bambino troppo piccolo per essere consapevole del proprio destino, incapace di comprendere quanto sta vivendo e il motivo per cui i genitori abbiano finalmente deciso di portarlo al mare. Natività umida è anche la fuga dell’autore, Nikolin Lasku, dai fallimenti amorosi, da un presente fatto gesti sbagliati e da un mondo che vuole il genere maschile come dominante: elementi autobiografici che, sotto forma di flussi di coscienza, interrompono la narrazione principale e creano archi temporali connessi alla vicenda della famiglia.

Tre fughe diverse ma dipendenti l’una dall’altra, raccolte in una natività umida.

Introduzione di Federico Brentaro.

Natività umida

Sua madre aveva organizzato la partenza in fretta e furia. I soldi della vendita della casa stavano finendo.
Suo padre aspettava che l’amico scafista li chiamasse, ma non arrivava alcuna notizia. I soldi stavano finendo.

Quel pomeriggio, appena dopo pranzo, aveva dovuto salutare il nonno e per la prima volta lo aveva visto in lacrime. La madre gli aveva detto che dovevano uscire evitando che la nonna li vedesse, altrimenti avrebbe chiamato la polizia.
Poco lontano dal palazzo aveva sentito la vecchia donna gridare dalla finestra: «Il mio bambino! Dove andate col mio bambino? Non potete portarmelo via così! Che vi prenda il diavolo!», ma non ci aveva badato.
La prospettiva di una gita coi genitori lo aveva totalmente alienato dalla realtà: col sorriso stampato in faccia veniva trascinato per mano dalla madre, mentre il padre continuava a urlare che era una pazzia, che sua moglie li stava condannando a morire tutti e tre.
La madre aveva replicato che se non fossero scappati subito da quel Paese sarebbero morti di fame e che quello che stava facendo era salvarli da un presente senza futuro. 

Cos’era la morte per un bambino di quasi quattro anni? Ancora non ne aveva avuto esperienza. Non esisteva nella sua testa nemmeno come parola. Le giornate trascorrevano felici tra le coccole dei nonni materni, le cure rudi ma affettuose di una madre troppo giovane, i regali di un padre che vedeva solo un giorno alla settimana e le angherie dei bambini del cortile del palazzo in cui vivevano, tutti più grandi di lui.
Un giorno era tornato a casa singhiozzando, la saliva che sapeva di sale e di sangue. Dopo averlo tranquillizzato, la nonna gli aveva spiegato che non doveva per nessuna ragione odiare quei bambini, ma essere compassionevole e gentile con loro; facevano ciò che facevano solo perché erano più poveri e affamati di lui.
Era la prima volta che si imbatteva nel concetto di povertà associato a quello di fame: aveva iniziato a notare che quei bambini non facevano mai merenda, che nelle loro case spesso mancavano il pane e la frutta e che, nel caso dei più taciturni, il loro stomaco parlava al posto loro. 

Perché i suoi genitori parlavano di morte mentre si andava al mare e, soprattutto, perché le loro parole suonavano così sorde, come se provenissero dagli stomaci vuoti dei bambini del cortile?

Non era mai stato al mare. Lo aveva visto in una vecchia TV a tubo catodico e in cartolina, e il nonno gli aveva raccontato che era come il lago a cui lo avevano portato di recente, solo molto molto più grande e salato.
Quest’ultima notizia lo aveva colpito moltissimo: chi si sarebbe mai premurato di salare tutta quell’acqua?
Prima che qualsiasi ipotesi per spiegare quella stranezza prendesse la forma di miti, cosmogonie, impressioni e inesattezze, che solo la logica dei bambini riesce a fondere in una forma coerente, il nonno aveva aggiunto che le lacrime delle madri albanesi avevano reso l’acqua salata. Quest’ultima notizia lo aveva confuso ancora di più. Non vedeva l’ora di arrivare con mamma e papà alla spiaggia e vedere tante, tantissime donne piangere e le loro lacrime fondersi con gli sbuffi dei flutti. 

Il padre lo aveva sollevato e fatto salire sul pullman con un unico balzo, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Si erano seduti tutti e tre tra i primi posti. All’odore di aglio, cipolla e alcol si sommava quello di nafta, e il caldo settembrino pareva spingere tutte queste impressioni dritte fino al fondo dei polmoni. L’uomo era un accendi-spegni di sigarette e la madre guardava pensierosa fuori dal finestrino come a voler catturare ogni minimo dettaglio dei paesaggi urbani che si stavano lasciando alle spalle.
Il bambino faceva uno dei suoi giochi preferiti: si premeva le dita sugli occhi chiusi finché non iniziava a vedere le mosche volanti. Poi li apriva di scatto, quasi a vedere un mondo di mattoncini colorati che si sovrapponeva a quello reale.

«Vuoi tirare? Tranquillo non me la devi pagare!» le luci riverberano attraverso il fumo artificiale e il vapore che si stacca dalla pelle dei ragazzi che stanno ballando che sembrano tante croci stanche e bagnate di rugiada nel cimitero di una brughiera da cui si solleva una nebbia asfissiante «Se hai paura passatela sulle gengive! Davvero non vuoi? A posto allora, fra» sono appiccicato a questo divanetto di pelle che probabilmente si è fatto una seconda pelle con tutti i residui epiteliali che si sono accumulati sulla sua superficie e mi viene in mente Calcutta che canta che Milano è un ospedale, no, Milano non è un ospedale, è una gigantesca clinica di recupero dei propri sogni, un posto dove l’illusione di poterli realizzare viene ripristinata a botte di droga, alcol, eventi, socialità e ottimismo, sento il calore della pelle dei loro sogni sulla mia schiena attraverso la camicia, sento il vapore dei loro sogni che invade i miei polmoni «Ho cambiato idea, sono ancora in tempo? Fammene tirare un po’, voglio sognare anch’io!»

Aveva proseguito il viaggio immaginando di stare su un materasso che galleggia sull’acqua e di sentire le onde che lo cullavano. La strada sconnessa aveva amplificato la potenza della sua fantasia facendolo cadere in un sonno profondo. Si era svegliato che il sole lanciava gli ultimi raggi orizzontali stagliandosi nel cielo come una buccia d’arancia.

Scesi dal pullman si erano incamminati in direzione del mare. Per la prima volta aveva notato la borsa che la madre reggeva con la mano sinistra. Subito avevo chiesto che cosa fosse. La donna si era fermata e si era seduta per terra, invitandolo a fare lo stesso. Aveva aperto la sacca: qualche album di foto, quasi tutte in bianco e nero, qualche gioiello in oro rosso, la sua trottola di legno, un cambio di vestiti per ognuno di loro e un berretto di lana, così piccolo che poteva essere solo per lui.
Presa la trottola in mano, aveva iniziato a correre, quasi l’avesse rubata e volesse scappare il più lontano possibile con la refurtiva. Ma il padre gli aveva gridato di fermarsi e così aveva fatto. Non tanto per l’autorevolezza del richiamo, quanto per la paura e la disperazione che aveva percepito nella sua voce. L’uomo era scoppiato a piangere, la donna e il bambino lo avevano seguito. Piangeva ma non sapeva perché. 

La madre si era ricomposta per prima e aveva ordinato al padre di prendere in braccio il bambino, con un tono di amorevole e rassicurante autorità. Continuava a ripetere che bisognava essere forti, che ce l’avrebbero fatta, che non avevano alternative. Accelerando il passo avevano raggiunto l’amico del padre che, cercando di essere il più disinvolto possibile ma risultando impacciato e losco, faceva avanti e indietro sulla banchina.
«Dobbiamo partire stasera stessa. Io non aspetto un solo giorno di più. Ci avevi promesso un posto in una nave merci, ma sono passati quasi due mesi.»
«È difficile arrangiare qualcosa adesso: i controlli della polizia sono aumentati e tutti vogliono andarsene. Dovete avere ancora un po’ di pazienza, avete un bambino con voi. Io non voglio bambini sulla coscienza, non aveste avuto lui…»
«Cosa? Vai avanti!»
La donna aveva iniziato a tirare con violenza il colletto della camicia dell’uomo, il quale era diventato paonazzo, forse per la vergogna di ciò che stava per proporre. Era anche lui un padre di famiglia.
«Altrimenti… ci sarebbe un motoscafo che parte stasera. Pochi posti, gente per bene.»
Nessun disperato può essere definito gente per bene, pensò la donna.
«Lo scafista è mio fratello per cui ci si può fidare.»

Il padre del bambino era furioso: avrebbe voluto uccidere l’uomo a mani nude in quel luogo. La madre si era girata verso di lui, avendo presagito la possibile reazione del marito, e con un solo sguardo aveva fugato ogni velleità. Avrebbero accettato.
Ricevute le direttive per quella notte, la donna aveva passato i soldi all’uomo e dopo avergli sputato sui piedi, gli aveva dato le spalle e si era allontanata. Anche il marito aveva sputato ai piedi dell’amico, digrignato i denti e seguito la moglie. Il figlio aveva gettato un sorriso innocente allo sconosciuto, poi provando a imitare i genitori aveva finito per trovarsi con le labbra e il mento ricoperti di saliva.

«Sputami addosso! In bocca!» sono dentro di lui, i suoi tendini d’Achille tesi come l’arco di un violino sulle mie spalle, mi avvicino alla sua testa con la mia e faccio colare lentamente la mia saliva sulle sue labbra «No! Sputami in bocca! Sul petto! Voglio che sia umiliante, non capisci? Stringimi il collo e dimmi che sono ridicolo!» ho sempre provato piacere durante il sesso, perché mi permette un grado di violenza che aborrirei in qualsiasi altra situazione della vita, ma sono sempre stato io a controllare la violenza che esercito e non mi è mai stata richiesta, imposta, in maniera così feroce e tuttavia sputo, lo schiaffeggio, gli tengo il collo per compiacerlo, è la prima volta che mi rendo conto di ciò che fanno tutti gli uomini, e anche io in quanto tale, e di ciò a cui siamo stati educati a fare sin dall’infanzia in funzione della nostra condizione di sesso forte, sottomettere il mondo, è la prima volta durante il sesso che non sottometto alla mia volontà ma sono sottomesso alla volontà di qualcun altro e, cosa ancor più ironica, da un ragazzo che per godere mi obbliga a sottometterlo.

Avevano cenato in un ristorante che si chiamava Lo Zodiaco. Nessuno aveva fame, ma i due adulti si erano imposti di mangiare per rimanere in forze e avevano costretto il bambino a fare lo stesso. La curiosità di questi era stata attratta dal nome del luogo; e così aveva chiesto alla madre cosa significasse “zodiaco” e lei gli aveva risposto che in base al giorno di nascita a ognuno spetta un segno, che può essere un animale o una figura antropomorfa. A lui, nato a inizio marzo, era destinato quello dei Pesci, lei era Capricorno e invece il padre Ariete.

«Ti ricordi quella strada? E la gente che correva?» siamo figli di una vecchia canzone d’amore che non suona più, sono nato sotto il segno dei Pesci e tutto quello che voglio è solamente amore, ma di chi poi? che mi consolo guardando Les Amours Imaginaires di Dolan a ogni fallimento amoroso e lo aggiungo al conto con nuove tacche tra le rughe della fronte e nuovi cerchi sotto gli occhi, e che vedo The Dreamers di Bertolucci durante ogni fase depressiva, avrò mai anche io il coraggio? ti ricordi quella strada riottosa? e la polizia che caricava? io sono come Matthew, spettatore non attore della rivoluzione, codardo, tutto quello che voglio è soltanto amore ma non sono disposto a sacrificare l’ideale e rimango fermo.

Il bambino aveva notato che sia il padre sia la madre avevano le corna e forse per questo litigavano così spesso; aveva detto di essere preoccupato che potessero farsi male davvero un giorno o l’altro. I due avevano riso di gusto, ma alla risata era seguito quel senso di malessere che solo le parole di un bambino, profetiche e destinanti nella loro semplice verità, possono suscitare. Non sapevano se ci sarebbe stato un futuro per loro dopo quella notte, ma questa consapevolezza, invece che preoccuparli, offriva loro sollievo da qualsiasi responsabilità nei confronti della vita: era tutto in mano al caso, o quasi. Ma i bocconi, i loro bocconi erano pieni di speranze e progetti.

Le dita unte dei genitori disegnavano scie luminose intermittenti riflettendo l’argento della luna, e il bambino le seguiva come lucciole. L’orizzonte, eccetto per la luce di qualche stella che pareva una perla solitaria degli abissi, era buio, come se il mare si fosse rovesciato e il suo fondale fosse ora il cielo. La voce dell’acqua aveva iniziato a cantare in sibili e flutti e vortici mentre scendevano lungo la spiaggia.
Il padre lo aveva afferrato sotto le ascelle e lo aveva fatto volteggiare in aria per poi posarlo sulle sue spalle. Si dovevano addentrare nell’acqua fino a raggiungere quello che al bambino sembrava un enorme salvagente senza buco. Vedeva le loro ombre tremare come tremano le sagome al fuoco di una candela consumata dalla vita. Amava osservare il fuoco e amava vedere la cera squagliarsi in mille rughe, come se i ceri, bruciando, invecchiassero. Ma faceva freddo lì e il ricordo di quella luce non lo poteva scaldare. 

Fu il primo a essere imbarcato. Galleggiare sull’acqua non era affatto come essere cullati. Il padre aveva aiutato la madre a salire e poi due uomini sconosciuti lo avevano tirato su. La donna si era diretta a poppa del gommone, si era seduta in una posa ieratica e aveva chiamato il marito e il figlio al suo fianco. Avrebbero potuto cambiarsi i vestiti bagnati solo all’arrivo, per il momento dovevano rimanere raccolti in una natività umida. Sentito il rumore del motore che si accendeva, la madre aveva tirato fuori il berretto dalla borsa e aveva coperto il capo del figlio, occhi inclusi. L’orlo premeva contro le palpebre, la lana prudeva. Delle mosche volanti nessuna traccia, solo buio.

Illustrazione a cura di Francesca Pisano.