Only God Forgives: Edipo, Lacan e la fuga dalla castrazione simbolica

Only God Forgives: Edipo, Lacan e la fuga dalla castrazione simbolica

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Oggi la Divulgatrice è alle prese con un ampolloso esercizio di stile: rileggere un film controverso del regista Nicolas Winding Refn con gli strumenti della psicanalisi.

Un Amleto a Bangkok. Questa potrebbe essere la tagline ideale per Only God Forgives, film del 2013 in cui per la seconda volta Refn sceglie Ryan Gosling come protagonista. Un coacervo di suggestioni simboliche, nel quale il mito edipico tanto caro alla psicanalisi freudiana e lacaniana quasi intasa il piano dei significati allegorici. 

Fedele agli stilemi mitici, Only God Forgives parla di vendetta e di espiazione, ma anche di genitori deludenti e di divinità implacabili. Allacciate le cinture, perché la Divulgatrice vi condurrà nei meandri più torbidi dell’animo umano. Sarà un viaggio da manuale… di psicologia. 

Amleto a Bangkok

Only God Forgives parla della storia di Julian, un fuggiasco americano che, insieme al fratello Billy, gestisce a Bangkok una palestra di pugilato e un giro di droga. Il film esordisce con Billy che, dopo aver trucidato una prostituta minorenne, viene punito per il suo delitto con la morte. 

A questo punto, la madre dei fratelli, Crystal – interpretata da Kristin Scott Thomas –, vola in Thailandia per istigare il figlio superstite a vendicarsi. Eppure, nonostante tutto, Julian incomprensibilmente tentenna. Qui, nella paralisi interiore e nei gesti ieratici di Julian, sottoposto a forze opposte e contrarie, c’è quello spiraglio che apre a una lettura psicanalitica del film. Una di quelle letture corpose e allegoriche, che non ha paura di scomodare gli stilemi del mito greco e le teorie di autorità del settore come Freud e Lacan. 

Tra mito e psicanalisi

Quando l’accento di una vicenda va a porsi sul funzionamento dei meccanismi mentali, la tragedia acquista di diritto l’etichetta di “moderna”. La non-conoscenza che provoca il dolore di Edipo, con la psicologia, si trasforma nell’indecisione paralizzante di Amleto. E Julian assomiglia di più a quest’ultimo. È un altro figlio che di fronte alle istruzioni inequivocabili di un genitore che pretende vendetta risulta incapace di agire, e del tutto immotivatamente. Rimane in piedi il triangolo di Edipo, ma il bambino, che non sa come scioglierlo, si dibatte confusamente, senza tentare di avvicinarsi alla soluzione. Soluzione che, fin dalla versione di Sofocle, prevede sempre una rinuncia. Ma ne parleremo dopo.

Dopo Drive, Refn ritorna sul tema della vendetta, mettendo in scena una catena di omicidi riparatori scatenati da una colpa iniziale. Una sorta di Orestea moderna, insomma, in cui bene e male si confondono, e solo un intervento di ordine superiore può mettere fine al bagno di sangue.

Psicologia, desiderio e legami familiari sono i principali ingredienti di Only God Forgives. Un piatto che, probabilmente, sarebbe piaciuto molto a Jacques Lacan. Refn sembra aver filmato un’allegoria alquanto esplicita del processo attraverso il quale un individuo lascia faticosamente la sfera dei desideri indistinti per entrare nel mondo della cultura. Il risultato è un film che parla della conquista del limite, quella Legge che, circoscrivendo ciò che è umano, solleva gli individui oltre il livello del godimento animale. Only God Forgives è una lezione di psicanalisi iper-estetizzata che mostra la necessità imprescindibile di una rinuncia, come quella di Edipo: la cosiddetta castrazione simbolica. Eccoci, perciò, di fronte a un’altra tragedia, costruita su un figlio, una madre e un padre, oltre che su violenza, sesso e paresi esistenziale. 

Mani di Julian
Le mani di Julian, oggetto di molti primi piani. Fonte: Film-Grab.

Figlio

Partiamo con ordine. In principio sta il figlio, Julian. Julian è un Edipo moderno, un altro Amleto, un figlio imperfetto. Nel momento in cui è chiamato ad agire, si paralizza: il suo desiderio è smarrito, non può trasformarsi in azione. Per questo non sa rapportarsi in modo sano con le donne, per questo non sa rispondere prontamente agli ordini della madre. Ecco il bambino che non sa dove andare e si perde, allontanandosi inconsapevolmente dall’atto di rinuncia che fa parte del processo di crescita. 

Refn ha un modo tutto suo di suggerire lo stato esistenziale in cui versa il suo protagonista. Ce lo mostra al centro di inquadrature lente, che si focalizzano sul busto statico, trattenuto e silenzioso di Gosling. E poi ci mostra le sue mani, attraverso una serie di suggestivi primi piani. Le mani di Julian sono mani incapaci di muoversi: l’unica cosa che sanno fare è stringersi a pugno. La mano è mostrata come una sostituzione fallica, ed è per sua stessa definizione insufficiente. Di conseguenza, non solo Julian non conosce altro linguaggio al di fuori della violenza, ma è anche incapace di vivere il sesso in modo sano e naturale. 

Silenzioso, impenetrabile e disturbato, Julian non è di certo una persona completa e stabile. Tuttavia, fin dall’inizio Refn ci suggerisce che non è senza speranze, e lo fa attraverso il confronto con Billy, suo fratello. Billy è semplicemente una bestia: privo di freni e assetato di sangue, perverso e legato morbosamente alla madre, sembra immune al pudore. 

Julian non si è ancora spinto così oltre; è ancora a metà tra un essere umano e l’animalità del fratello. Il suo destino è ancora da definirsi, e dipende dalle forze in gioco nel triangolo edipico dal quale non si è ancora districato. Chi avrà la meglio, in questo suo groviglio interiore: il richiamo della vita o la pulsione di morte di Billy? Sceglierà la legge del paterno o le lusinghe del materno? 

Madre

Forse non serve ricordarlo, ma la madre, per la psicanalisi, è una figura tanto essenziale quanto ambivalente. La portata e la natura del suo amore possono determinare il destino felice del bambino, o condannarlo. 

Crystal è l’archetipo della “madre-coccodrillo”, il mostro che fagocita i figli per non dover subire il dramma della separazione. Sicura, spietata e grottescamente sensuale, si muove nelle vite dei figli tiranneggiandole come un’amante gelosa. I figli hanno con lei un rapporto morboso: Crystal occupa il loro intero orizzonte relazionale e li tiene avvinghiati a sé con atteggiamenti esplicitamente incestuosi. Ecco perché il desiderio, in Billy e Julian, non ha niente di sano. Crystal è un elemento di disturbo nella sessualità dei figli, e Refn lo sottolinea giocando nelle inquadrature con i rapporti tra le figure e gli spazi circostanti.

La vendetta, per Crystal, è un’altra occasione per richiedere al figlio l’ennesimo segno di fedeltà assoluta e incondizionata. Per Julian è una consuetudine che si ripete, un altro attorcigliamento del cordone ombelicale che lo lega alla madre in un rapporto simbiotico e fatale. E così scopriamo il motivo della fuga a Bangkok: Julian, per proteggere la madre, aveva ucciso il padre. Un vero triangolo edipico, insomma, che avrebbe fatto la gioia di Freud. Il materno, la sessualità e la violenza sono, a questo punto, indistricabili. Così la china che ha portato Billy verso la bocca della madre-coccodrillo sembra anche per Julian l’unica strada percorribile.

Madre
Crystal viene ripresa nella stanza di Julian, nella stessa posizione nella quale appariva qualche scena prima una prostituta. Da distante, sembra più un’amante che la madre del protagonista. Fonte: Film-Grab.

Padre

Tuttavia, c’è anche un’altra forza, uguale e contraria, che preme su Julian, ed è quella che irradia dall’archetipo del padre. Secondo Lacan, il padre ha il dovere di aiutare il figlio a circoscrivere il desiderio, salvandolo dalla sfera dell’indistinto in cui lo mantiene la madre-coccodrillo. Il desiderio, per essere sano, non può essere illimitato: questo lo renderebbe incontrollabile e distruttivo. Serve un atto di rinuncia, di delimitazione; serve una legge che lo regoli, e il padre è il donatore di quella Legge. 

In Only God Forgives il paterno è una forza quasi sovrannaturale, benevola nel dono e severa nella punizione. Il rappresentante di questo principio è Chang, il poliziotto in pensione interpretato da Vithaya Pansringarm. Non è solo il custode della Legge superiore, ma è anche colui che vigila sulla legge degli uomini. È lui a rimproverare e punire il padre della prostituta minorenne perché non l’ha protetta. È lui a incoraggiare l’assassinio di Billy, che darà il via alla catena di omicidi espiatori. Ed è lui a vigilare sulla condotta di Julian. 

Chang non è una figura cannibalica, l’orco che nella fantasia del bambino agisce per distruggerlo. Anzi, è il padre perfetto, equo e sempre presente. Perché, anche se opera in modo violento, la sua azione è sempre controllata, circoscritta, mediata dalla sua katana, il simbolo fallico efficace che si contrappone alla mano inoperosa di Julian.

Padre
Chang, il padre archetipico, gioca con la figlia. Fonte: Film-Grab.

Triangolo 

Come era già successo in America, il materno pretende la distruzione del paterno: Crystal vuole che Chang paghi per la morte di Billy. Julian tentenna; prova a sfidare il poliziotto sul ring della sua palestra, ma perde miseramente. Non è ancora pronto per districarsi dall’abbraccio mortale del materno. 

Lo scioglimento finale, il momento di massima crisi, coincide con lo scioglimento del triangolo edipico. Refn gli dedica una sequenza a montaggio alternato. Da una parte, abbiamo Julian che raggiunge la casa di Chang per vendicarsi; dall’altra, Chang che raggiunge l’albergo di Crystal per punire la sua tracotanza. 

A casa di Chang, Julian trova la figlia di lui e scopre che Crystal ha inviato un sicario per ucciderla. Con alcune riprese dinamiche e claustrofobiche, Refn mostra il lavorio della mente di Julian nell’atto di sottrarsi alle vecchie dinamiche. In lui finalmente prevale un abbozzo di sentimento umano, e così decide di salvare la bambina, contraddicendo il volere materno. Nell’albergo, intanto, anche Crystal prende una decisione: preferisce salvare se stessa e addossare tutte le colpe al figlio. L’inquadratura stavolta è fissa, i protagonisti rimangono al centro della scena ma sono lontani, immobili. L’azione decisiva è altrettanto netta e flemmatica: Chang, il padre che conosce la verità e conosce la Legge, uccide Crystal con un solo colpo di katana. 

Nella casa del padre, Julian ha compiuto il primo passo verso la riconciliazione con il paterno e verso una normale maturazione. Nella casa della madre, che Julian raggiungerà poco dopo, il figlio scopre il cadavere di Crystal e lo trafigge a sua volta con una katana. È iniziato il percorso di rinnovamento.

Tutto bene quel che finisce bene

Ora bisogna trasformare il proposito in azione. Julian accetta la rinuncia, che è anche una punizione. Bisogna abbandonare l’incestuoso godimento inappagabile e così definire il desiderio singolare che solo l’Altro, ciò che è diverso, potrà soddisfare. È il momento di sottoporsi alla castrazione simbolica. 

Nel finale di Only God Forgives Julian riceve in dono la Legge, affrontando una castrazione che, più che simbolica, è metaforica. In uno spiazzo boscoso e luminoso lontano dallo squallore della città, il figlio offre le mani a Chang, vicario del  paterno, affinché possano essere tagliate. La serie di omicidi viene finalmente interrotta, il sangue dell’amputazione è il tributo finale e definitivo che la dea della vendetta aveva preteso. Julian si è redento. Il film può terminare.

I pugni di Julian
Julian offre le mani strette a pugno affinché la katana di Chang possa tagliarle. Fonte: Film-Grab.

Cosa ho appena visto?

Probabilmente non vi risulterà difficile crederlo: questo film si è preso – anche – parecchi fischi. Perché Only God Forgives non è un film perfetto. Refn tenta di replicare e insieme esasperare l’aura glamour di Drive, suo precedente capolavoro. Sceglie di nuovo Cliff Martinez per la colonna sonora. Ci sono sempre i neon e gli strip club come vezzo distintivo. Si affida ancora una volta all’immobilità silenziosa dei protagonisti come ratio delle inquadrature e al muso duro e alienato di Ryan Gosling. Ma l’impressione, questa volta, è quella di un’abbuffata un po’ indigesta di simbolismi astrusi e di trovate estetiche tanto audaci quanto collaudate. L’autocompiacimento di Refn spesso soffoca, o perlomeno intralcia, la bellezza e la ieraticità di certe inquadrature. Viceversa, il manierismo insistito con cui costruisce gli spazi, le proporzioni e i volumi in rapporto alle luci, a volte, intorbidisce il piano dei significati simbolici. 

Come sempre, è l’archetipo a salvare la baracca. Aiuta lo spettatore a guadare il fiume denso dell’estetica e del feticismo e lo conduce salvo a riva, al di là del desiderio di essere criptico del suo regista e della smania di interpretazione del suo critico ideale. E, cosa non meno importante, ci dona una sorta di sogno freudiano da manuale, una sfida di interpretazione avvincente per ogni psicanalista da camera.

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.