La metamorfosi di Elektra in von Hofmannstahl

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Ma chi son io perché tu mi guardi con occhi così dolci? Vedi, non sono niente. Ho dovuto spogliarmi di tutto quello che ero.

H. von Hofmannstahl, Elektra, Milano, Mondadori, 1978, p. 99.

Figlia di Agamennone, re di Micene e Clitennestra, Elettra è una figura piuttosto controversa della mitologia greca. Dopo la morte del padre, per mano della madre Clitennestra e dell’amante Egisto, Elettra convince il fratello Oreste a vendicare la morte di Agamennone, assassinando i due carnefici. Elettra cova del forte rancore e del disprezzo per la madre, che saranno risanati solo con la sua morte. Un tema così lugubre non poteva che affascinare un poeta decadente come il viennese Hugo von Hofmannstahl, che riscrisse la tragedia aggiungendole tonalità più macabre, cupe e stravolgendo il personaggio cardine: nasce così Elektra.

La genesi dell’Elektra

Tratta dall’omonima tragedia di Sofocle, l’Elektra, la tragedia in un atto di Hofmannsthal, fu rappresentata per la prima volta il 30 ottobre 1903 presso il Kleines Theater di Berlino. La regia era di Max Reinhardt, con il quale Hofmannsthal collaborò per parecchi anni e, dal 1909, la musica fu affidata all’amico Richard Strauss.

Nel 1904 Eleonora Duse, attrice e musa di Gabriele d’Annunzio, a Berlino vide in scena la pièce e ne rimase colpita, tanto da chiedere all’autore i diritti per la sua rappresentazione. Hofmannstahl, grande estimatore dell’attrice, ne rimase talmente impressionato da rinunciare subito all’accordo preso con un altro direttore artistico (Fumagalli, con cui era già in fase di trattative) e iniziò subito a lavorare a una stesura in prosa pensata appositamente per lei. Su consiglio dell’amico Marco Praga scelse come traduttore Giovanni Pozza, già critico del Corriere della Sera, ma qualcosa andò storto. Il dramma venne consegnato nel 1904, ma nel 1906 ancora non era pronta la traduzione. Un ritardo di oltre due anni, la brusca interruzione del sodalizio artistico tra Eleonora Duse e il suo regista Edward Gordon Craig e probabilmente Mercurio retrogrado impedirono una collaborazione che avrebbe potuto stravolgere il teatro del Novecento.

La Duse, quindi, non recitò mai la pièce, che fu ritrovata in un archivio negli anni Settanta da Antonio Taglioni. Egli, dopo circa sessant’anni, portò a termine l’agognata traduzione e la fece pubblicare per Mondadori nel 1978.

L’Elektra di Hofmannstahl

Meglio morire che vivere e non vivere.

H. von Hofmannsthal, Elektra, Milano, Mondadori, 1978, p. 35.

Elektra è ambientato diversi anni dopo la morte di Agamennone, a Micene. La protagonista, ancora assetata di vendetta, convive con la sorella Chrysothemide, la madre e l’amante di quest’ultima, Egisto. In questa pièce Elektra è in bilico tra vita e non-vita, in un clima di fragilità surreale: è devastata dall’odio nei confronti della madre, dalla vita di soprusi e violenze che è stata costretta a subire e a vedere con i propri occhi. Il suo stato mentale è gravemente alterato e compromesso: la vecchia Elettra non esiste più. Quest’odio trasforma la vittima in carnefice, rendendola colpevole e maestra del delitto (poi compiuto dal fratello Oreste). Elektra rientra perciò nello spettro sintomatologico dell’isteria, che Freud studiava proprio in quegli anni, e ne diventa riflesso.

La sorella Chrysothemide rappresenta lo stereotipo femminile che vigeva ai primi anni del Novecento: una donna che sogna una famiglia serena, con figli e un marito amorevole. È consapevole delle atrocità commesse dalla madre, ma non vuole intervenire: per quieto vivere, vuole solo fuggire da quella casa degli orrori. Elektra schernisce questo desiderio di maternità della sorella: la sua visione della famiglia è ormai corrotta dalla madre Clytemnestra.

Per un tratto, Elektra diventa quasi psicanalista della madre, che le domanda come smettere di avere quei suoi incubi ricorrenti. Sorge a questo punto un dilemma, nella pièce e nell’inconscio del lettore (o spettatore): è meglio dimenticare un evento tragico o ricordarlo volontariamente, per immagazzinare la sofferenza ed evolvere come nuove persone? Elektra non riesce a dimenticare la morte brutale del padre, Clytemnestra soffre di amnesie riguardo quell’avvenimento. Due meccanismi di difesa che, portati come in questo caso al loro estremo, finiscono per essere distruttivi.

La morte di Elektra

Sul finale entra in scena Oreste, autore del delitto in entrambe le versioni della tragedia. Violentemente uccide prima la madre Clytemnestra e poi Egisto. E qui avviene la vera metamorfosi di Elettra: l’unico motivo che la manteneva in vita, la sua sete di vendetta, è stato portato a termine. Cosa le resta? Il vuoto, il nulla. In mezzo ai festeggiamenti di tutti coloro che non avevano in simpatia i due amanti, Elektra scende in giardino, in uno stato confusionale e quasi trascendentale. È qui che avviene l’apoteosi della sua intera esistenza: Elektra crolla a terra e si lascia morire.

A tenerla in vita, allora, era l’odio profondo e lacerante nei confronti della madre. Elektra viveva per odiare, e ora che è morta rimane un dubbio, che probabilmente nel primo Novecento fece uscire dal teatro gli spettatori pieni di quesiti: la sua sete di vendetta e di ira è stata ufficialmente placata? È perita perché esausta di quell’odio divoratore? Il suo sarà un sonno sereno o ancora tormentato? A noi rimane il dubbio, al pubblico della fin du siècle, le sedute nello studio di Sigmund Freud.

Illustrazione a cura di Martina Nenna.