The Undoing: la rappresentazione ideologica della realtà che vorremmo

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Una famiglia felice, una bella casa in cui vivere e quel benessere borghese, miserabile aspirazione di una vita che vorremmo, sottofondo di una quotidianità restituente un’artefatta ma rassicurante calma. The Undoing si presenta così, tra dialoghi al limite dello spot Mulino Bianco e l’impressione, sin dalle prime battute, che la chirurgia estetica su Nicole Kidman non fosse necessaria e che Matilda De Angelis sia qualcosa che solo con il passare degli anni, e magari un Festival di Sanremo tutto suo, questo Paese capirà e saprà valorizzare. 

Tutto scorre nella famiglia, all’apparenza priva di segreti, formata da papà pediatra oncologico, moglie terapeuta e relativa prole al seguito, pur viziata dal suo status sociale non da subito – stranamente – detestabile. I siparietti tra i tre restano però al limite dello stucchevole, e la sensazione di disagio restituita è simile a quella scatenata dall’opulenza sfarzosa e immotivata esibita al puntuale evento benefico di turno. Ma su questo, e più in generale sull’affresco di una finzione che corrisponde tristemente a realtà, torneremo più avanti. 

C’è un che di surreale in lei che spreme le arance o in lui che chiama il figlio campione, ma tutto contribuisce a un immobilismo emotivo, classico preludio della serialità a un improvviso, quanto telefonato, sconvolgimento. Intuizione possibile complici i per nulla rivelatori trailer mandati massivamente in onda da Sky, grazie ai quali mezza trama è conosciuta ancor prima di cominciare. Ma anche dell’assuefazione e dal compiacimento del mediocre senso investigativo dello spettatore medio – oltre che della sua incapacità di godersi un prodotto televisivo senza averne un’idea che lo preceda – ne parleremo più avanti. 

I buoni motivi per guardare The Undoing


Ci sono buoni motivi per guardare The Undoing? Uno, forse il più valido, appare subito, nella prima puntata. Matilda cattura la telecamera con lo sguardo: la fotografia ne esalta i lineamenti e valorizza un personaggio melodrammatico e sfacciatamente misterioso. Le sue scene di nudo, inevitabilmente apprezzate ma in alcuni frangenti sospettosamente gratuite, hanno il merito di proiettarci in un rapporto estremamente confidenziale tra le due protagoniste femminili, seppur si avverta forte il sapore della casualità di alcune scelte narrative, anche per quelli che saranno gli sviluppi futuri della trama. Da un lato la famiglia americana modello, dall’altra un’ossessione estremizzata e immediatamente sessualizzata. Ancora una volta, immaginarsi che qualcosa non stia andando per il verso giusto non è un’operazione così difficile. 

Perché tutto sommato, a dispetto di quanto vorrebbe celare il misterioso adattamento italiano – «Le verità non dette», recita il sottotitolo – appare piuttosto evidente come e in che modo The Undoing intenda raccontare quel che vuole. A prescindere da qualsivoglia considerazione sull’intreccio, un plauso va però alla scenografia, curata magistralmente nei suoi ambienti, interni ed esterni. Tutto odora di lotta di classe, di rivoluzione borghese, di architettura finemente newyorkese e sprezzante del mondo che c’è fuori. Capiamo perfettamente dove ci troviamo, permeati come siamo di quel feticcio classista dalla prima all’ultima battuta. Che tipo di atmosfera regni ci viene praticamente sbattuto in faccia. Eppure, in prima istanza, questo non ci impedisce di respingere istintivamente l’idea che l’evento scioccante e critico di quella normalità che vediamo – e che normalità non è per niente – non sia stato causato da chi viene subito indicato come principale sospettato. Non siamo come loro, eppure dopo una finestra di appena mezz’ora, su un mondo che possiamo solo guardare e non toccare, già ragioniamo alla stessa maniera. Tenetelo bene a mente, la prossima volta che vi farete paladini della lotta sociale di turno che non vi riguarda.

Cosa non funziona

Da un punto di vista squisitamente thrilleristico, Undoing non mostra alcuna qualità particolare. Per la verità, pubblicizzata come serie evento, non eccelle (quasi) in nulla. L’indagine condotta, che in alcuni momenti si arricchisce di una tensione che sfiora la liaison completamente nonsense, forzata e quasi mai rivelatrice di chissà quali verità, in alcuni momenti si tinge anche di grottesco. È così che l’amore per le passeggiate di Grace (Nicole Kidman) diventa improvvisamente elemento potenzialmente probatorio, seppur non si intuisca precisamente di cosa. I colpi di scena latitano, e la polizia appare talmente impegnata a gestire un caso costantemente mandato in onda dai media – perché la spettacolarizzazione di un omicidio fa gola anche dall’altra parte dell’oceano – da permettere che il principale sospettato venga lasciato libero di andare dal secondo o, a seconda dei punti di vista, primo tra le vittime dell’omicidio della propria moglie. Irrealistico e melodrammatico, ma tant’è. Un po’ come il finale: gestito frettolosamente, spesso dilatato nei tempi quando non potrebbe permetterselo, fino a svuotarli del pathos di cui dovrebbero essere carichi. Nonostante la narrazione abbia il merito di scorrere ugualmente, prestando il fianco a quegli stessi difetti che, in una sorta di meccanismo perverso, riescono a intrattenere anche lo spettatore più disinteressato, compiaciuto dalla solida prova interpretativa degli attori e rincuorato dalla lunghezza complessiva, tutto sommato modesta, della serie. Ed è forse questo il merito principale di The Undoing e della recente industria seriale: grazie a cause e meccanismi che solo uno bravo saprà spiegarci tra qualche anno e millantando meriti di cui non potrebbe fregiarsi, ma intrattiene.

Anche i cliché utilizzati hanno un retrogusto marchettista. L’instabile ed emotivamente succube di Jonathan, Elena Alves (la nostra Matilda), è un’artista: un po’ pazzerella, fuori dagli schemi e innamorata di chi ha salvato la vita al proprio figlio. Così nuovo che sembra quasi fare rima con progresso. Grace è invece una terapista, prima impegnata con la coppia gay di turno a scavare a fondo nelle ragioni del tradimento di uno dei due. Poi, nonostante un background professionale invidiabile e uno studio che sembri suggerire almeno trecento dollari all’ora di parcella, incapace di realizzare che razza di psicopatico abbia sposato. Recitando, al proprio figlio, anche piuttosto convintamente, la storiella del cane del papà che tanto lo ha fatto soffrire. Tra l’imbarazzante e lo sconcerto. Sia chiaro: per scrivere una bella storia non è necessario stupire, anzi. La ricerca ossessiva della diversità e dell’essere fuori degli schemi ha partorito aborti sociali della cultura moderna ben peggiori. Ma la coerenza è importante. La terapeuta borghese che cura la coppia di omosessuali, anch’essi borghesi e stereotipati nella loro rappresentazione, insinuando che il birbantello dei due abbia voluto lasciarsi scoprire per un bisogno del proprio ego è nient’altro che la Locura di Boris. E non ci sarebbe altro modo di definirla. 

La rappresentazione della realtà in The Undoing

Un problema diffuso di questa società, concedetemi, è che si è indotti a ritenere che ci sia sempre qualcosa da scoprire. Qualcosa di diverso, qualcosa di speciale, qualcosa che non sia come ci viene rappresentato. Ma non è così. Innanzitutto perché alcune cose è meglio che siano per quel che appaiono, fidatevi. E poi perché questa continua abitudine al colpo di scena, che tutto possa cambiare all’ultimo minuto utile e risolvere un dubbio della nostra vita o un caso di omicidio, semplicemente, non rappresenta la realtà. I meriti di The Undoing iniziano allora nel momento in cui il fulcro della narrazione non è tanto insito nel mistero o nella risoluzione del caso, ma in quella rappresentazione della realtà che ognuno di noi è disposto a creare per coprire la mediocrità e infelicità di cui è circondato. E colpisce tutti, anche chi vive in un appartamento da sogno a Manhattan e idealizza il proprio padre al punto da non rendersi conto di che pezzo di merda sia, cara Grace. 

Salvo rari momenti, grazie ai pochi e scadenti indizi disseminati qua e là nel corso delle sei puntate, l’intuizione riguardo il nome del colpevole non vacilla praticamente mai. È sempre lì, davanti a noi. Eppure, quasi inconsapevolmente, il dubbio sulla sua innocenza ciclicamente ritorna. E non tanto perché il sospetto sia alimentato da chissà quale particolare sviluppo narrativo. Anche perché, dal ritorno a casa Alves all’episodio del cane scappato di casa, gli indizi sarebbero fin troppi. Ma perché a convincersene è proprio lei, Grace, sua moglie. Questa smette di domandarsi dell’innocenza del marito nel momento esatto in cui il desiderio di riavere indietro quello che le è stato strappato inizia a diventare troppo ingombrante, superiore anche alla disperazione di quanto accaduto. 

È chiudendo gli occhi che troviamo la forza di andare avanti, dimenticare parte della quotidianità che viviamo e per cui soffriamo. La nostra rappresentazione della realtà non è nient’altro che un esercizio di stile alla ricerca di un senso che semplicemente non c’è. È nel tentativo di aggrapparci all’illusorietà di ciò che riteniamo ci faccia sentire al sicuro, che diveniamo disposti a tutto. Con le dovute proporzioni, è il percorso mentale che spinge Jonathan ad alterare completamente la propria percezione del reale e a consentirgli di vivere prima una vita parallela, fatta di bugie e inganni, poi di eliminare quella fonte di disturbo divenuta per lui malsana e intollerabile. Con i necessari pregiudizi, è l’opera di convincimento allo spettatore che prova a compiere l’avvocato Fitzgerald, figurativamente rivolta alla giuria, ma metaforicamente impegnata con il pubblico, il cui istinto omertoso, coccolato e benvoluto nel corso delle sei puntate di The Undoing, è sedotto dalle pur ammirevoli arringhe dell’indifendibile. 

È questa, forse, la verità non detta. A cosa siamo disposti, pur di continuare a vedere le cose come vorremmo che fossero e non per quello che realmente sono? Crediamo che il nostro giudizio sia migliore e più appropriato di quello degli altri solo perché vogliamo che lo sia. La verità è che non è sempre così.

Rielaborazione grafica a cura di Caterina Cornale.