Perrault a Versailles: quando la fiaba incontrò il barocco

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Fiabe, Andersen, fratelli Grimm… sono tutti termini e nomi che ci riportano alla nostra infanzia, ci fanno viaggiare con la mente e ci evocano dolci immagini del nostro passato. Nel suo consueto appuntamento mensile con la letteratura francese, la Divulgatrice racconta in questo pezzo come la fiaba sia entrata nella corte di Versailles e sia diventata una “roba da intellettuali”.

Il Re Sole e il gusto barocco della fantasia

In Italia la grande capitale del barocco era Napoli, grazie anche al genio creativo di Giambattista Basile. Proprio a lui e alla sua opera Lo cunto de li cunti si deve la nascita del nuovo modello narrativo e del genere della fiaba, che dalla città partenopea si diffuse poi in tutta Europa e in particolar modo nella capitale francese. Pochi decenni più tardi, in Francia, fu l’epoca del regno di Luigi XIV, il Re Sole. La corte di Versailles stava vivendo l’apoteosi del suo splendore con feste, eleganza e sfarzo. È proprio in questo clima che cominciò a diffondersi la moda letteraria dei racconti di fate. La fata era, infatti, una delle figure fantastiche più apprezzate dalle dame dell’epoca, nonché soggetto che stavano iniziando a prendere piede nei gusti di corte. Del resto, di mondi mitologici e immaginari la Francia ha una storia che risale a ben prima di Versailles: dalle eroiche Chansons de geste ai cicli arturiani. E se fino ad allora il genere fiabesco era relegato al genere femminile, fu grazie a Luigi XIV che dettò moda e si aprì anche agli intellettuali uomini. È proprio qui che si inserì Charles Perrault. Alla corte di Luigi XIV, Perrault raccolse, infatti, dalla tradizione popolare (e da Basile stesso) undici fiabe, rielaborandole con un linguaggio colto e vivace. Le sue fiabe sono scritte per essere apprezzate da qualsiasi lettore (o uditore): le vicende sono semplici e spesso sfoltite da quelle originali di Basile. Sono storie e racconti godibili sia dai più piccini, sia dagli eccentrici frequentatori della corte di Versailles.

Charles Perrault

Perrault nacque a Parigi nel 1628 e la sua formazione fu inizialmente      di stampo giuridico. Di famiglia benestante e di alta borghesia, si laureò in Legge, dedicandosi in seguito ai servizi statali. Si dedicò alla stesura di racconti per l’infanzia soltanto piuttosto avanti con l’età. Nel 1680 scrisse la raccolta Histoires ou contes du temps passé, avec des moralitez, estensione dei Contes de ma mère l’Oye (Racconti di Mamma Oca), pubblicato soltanto nel 1697. All’interno di questo volume sono contenute le fiabe più celebri e intramontabili, come La bella addormentata nel bosco, Cenerentola, Pollicino e Cappuccetto Rosso. La sua opera ebbe un successo clamoroso, che coronò il nome di Perrault non solo come importante letterato ma anche come autore di fiabe, duecento anni prima dei tedeschi Grimm. Nelle fiabe di Perrault compare sempre l’elemento della morale, seppur con un ruolo marginale, tipicamente precluso alla sfera delle favole. Come nel caso dei fratelli Grimm, anche le sue fiabe spesso non hanno il lieto fine che conosciamo. L’esempio più eclatante è Cappuccetto Rosso, divorata dal lupo. La morale della fiaba diventa però così brutalmente evidente: mai fidarsi degli sconosciuti.

La Querelle des Anciens et des Modernes: la prima rap battle della storia

Perrault non era soltanto un anziano signore che inventava fiabe, fu anche pioniere di una delle querelles più interessanti degli ultimi secoli. Intorno alla metà del Seicento, infatti, alla corte di Francia sorse un dibattito che accompagnò gli intellettuali per molti, forse troppi, anni. Come si evince dal suo nome, si trattava di una disputa tra i sostenitori della lingua e dello stile più antichi e puri e quelli a favore di una progressione verso la novità. Secondo i primi, capitanati dal poeta e scrittore Nicolas Boileau, la letteratura classica greca e latina era insuperabile, perfetta. Non bisognava nemmeno cercare di provare a sorpassarla, si poteva ormai soltanto imitarla. I moderni, tra cui Perrault, sostenevano invece l’esigenza di esplorare nuovi modelli letterari, nuovi utilizzi del linguaggio e di portare un po’ di freschezza alle polverose biblioteche di Parigi. Come ogni querelle che si rispetti, il dibattito proseguì per oltre mezzo secolo tramite trattati, scritti, lettere e repliche, per poi ripresentarsi anche nel Settecento. Non ci furono veri vincitori e vinti, ma Perrault mantenne senza dubbio la parola. C’era bisogno di modernità, c’era bisogno di inventare il genere della fiaba, seppur guardando all’Italia.

Il lascito della fiaba nel secolo dei Lumi

La fiaba, il cunto, le conte, nel Seicento napoletano e francese divenne dunque letteratura colta, intrattenimento sociale, eleganza e manifesto di nobiltà. Ciò che Perrault ha lasciato ai posteri non sono solo racconti, ma un vero e proprio modello letterario, destinato a proseguire anche nel secolo successivo. Nel XVIII secolo, poi, sorsero nuove raccolte di fiabe, talvolta provenienti da penne femminili. Ne è un esempio Madame Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, alla quale dobbiamo La bella e la bestia (o la sua versione ridotta, nonché la più nota, scritta da Madame Jeanne-Marie Leprince de Beaumont. La differenza tra i due secoli sta nello scopo delle poesie: nell’epoca barocca, Perrault voleva principalmente dilettare i lettori, fornendo una componente moralistica come scopo ultimo. Nell’epoca dei Lumi, invece, la ragione e l’insegnamento divennero la traccia principale da seguire nella stesura dei racconti. Ciò non impedì tuttavia agli “antichi” di proseguire la querelle iniziata il secolo precedente e schierarsi nettamente contro i racconti fantastici. La fiaba tornò quindi a essere oggetto di discussione e separazione in due correnti ben distinte. A ogni modo, questo genere letterario confluì nello spregiudicato, amorale e libertino Settecento, attraverso nuove forme artistiche come l’opera musicale. Una dimostrazione tangibile di come il genere ampio e variegato della fantasia accompagni qualsiasi epoca, rendendosi immortale.

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.