La viaggiatrice cronica: intervista alla blogger Michela “ibringmyownbottle”

La viaggiatrice cronica: intervista alla blogger Michela ibringmyownbottle

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Siamo abituati ad associare il viaggio al concetto di libertà: per la maggior parte di noi, l’organizzazione è un aspetto secondario. Era così anche per Michela, fino a quando, tre anni fa, le è stato diagnosticato il diabete di tipo 1. Per lei, da tempo impegnata a ridurre la propria impronta ecologica, la sfida si complica e l’esperienza del viaggio assume connotazioni diverse, diventando uno strumento di autoconsapevolezza. Nel suo blog Michela si racconta, tra malattia cronica, passioni e zero waste; e si racconta a noi in questa intervista, aiutandoci a far luce su tematiche importanti e dimostrandoci che viaggiare significa confrontarsi, prima di tutto, con noi stessi.

Il tema di questo mese è il viaggio, che è anche uno degli argomenti cardine del tuo blog. Hai sempre avuto questa passione? Qual è il tuo primo ricordo legato a essa?

Quando ero bambina, con la mia famiglia non viaggiavamo spesso, al massimo le classiche vacanze estive ad agosto. Mio padre odiava l’aereo, quindi ricordo solo l’agonia di ore e ore di traghetto. Vivendo in Sardegna, l’estate per noi è sempre stata come una lunga vacanza: bastava prendere una borsa con l’asciugamano, la crema solare e un libro, guidare verso la spiaggia più vicina e godersi la giornata al mare. La mia passione per i viaggi è cresciuta col tempo, quando ho iniziato a organizzarli in autonomia: a Praga, a Parigi e in giro per la Germania.

Quando ho compiuto otto anni i miei genitori mi hanno portato nel nonluogo per eccellenza, Gardaland. Il mio primo ricordo legato al viaggio è quindi di turismo puro, molto diverso dal viaggiare. Per intenderci: per me il turista paga e consuma le esperienze che ha programmato di fare, mentre il viaggiatore si fa guidare dall’istinto in luoghi reali, che lo fanno andare via più ricco rispetto a quando è partito.

Questa distinzione l’ho capita dopo, ma già in quel viaggio era racchiusa la profonda differenza tra la giornata a Gardaland e il partire alla scoperta dei dintorni, senza una meta ma guidati dall’istinto, dal passaparola, da quello che catturava il nostro sguardo e che ci spingeva a fermarci di volta in volta in posti che altrimenti non avremmo mai visto.

Un momento spartiacque nella tua vita è stata la diagnosi di diabete di tipo 1. Da allora è cambiato molto nella tua quotidianità, ma come è cambiato il tuo approccio al viaggio?

Hai presente la cosa sull’istinto che ho appena detto? Dimenticatela.
Scherzi a parte, una diagnosi di diabete di tipo 1, così come per tutte le malattie per le quali non conosciamo una cura, è destabilizzante. Ora so che, ogni volta che viaggio, oltre a organizzare voli, pernottamenti e spostamenti, devo organizzare anche tutta la parte relativa alla mia condizione.

Io indosso un microinfusore, un piccolo dispositivo che tengo attaccato al corpo ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, che svolge il ruolo del mio pancreas. Questo dispositivo, per funzionare, ha bisogno di cannule, cartucce e insulina; dunque, ogni volta che viaggio, devo contare non solo quante di queste cose mi serviranno per i giorni nei quali starò via, ma anche quante me ne serviranno per eventuali imprevisti. All’inizio, questo ha influito sulla scelta delle mete: non mi sentivo sicura ad andare in un Paese dove, in caso di problemi, non avrei potuto reperire facilmente insulina.

Un’altra cosa che è cambiata è il mio approccio al cibo. Per me viaggiare significa non solo vedere nuovi posti, ma anche e soprattutto assaggiarli. Col diabete tutto diventa più difficile, perché la quantità di insulina viene calcolata in base a ciò che mangio: adesso, di fronte a un piatto sconosciuto, devo capire quali sono gli ingredienti e provare a stimare la quantità di insulina da fare.

All’istinto della scoperta dunque ho dovuto aggiungere la parte organizzativa che, fortunatamente, col tempo sta diventando sempre più facile.

Qual è la maggior sfida del viaggiare con una malattia cronica?

Prima ho parlato di imprevisti. Quando si ha il diabete di tipo 1 e si viaggia è sempre fondamentale accettare una piccola parte di imprevisto, un cambiamento di piani dell’ultimo secondo. Le glicemie fanno quello che vogliono, a volte si alzano, a volte si abbassano per il troppo sforzo fisico, e non mi rimane che fare delle brevi soste o rivedere i piani. È sicuramente una sfida, ma a volte la prendo anche come un invito a rallentare, a gustare il momento che ho di fronte.

Parlando di viaggi metaforici: com’è iniziato il tuo percorso zero waste? Che impatto ha avuto la malattia sul tuo stile di vita?

Come dici, è un percorso, quindi non c’è mai un punto d’arrivo. Mi sono avvicinata allo zero waste mentre studiavo in Germania, alla Friedrich-Schiller-Universität di Jena. Al tempo seguivo un corso sulla letteratura americana incentrato sulla figura di Henry David Thoreau. In Germania i corsi sono un po’ diversi da quelli a cui siamo abituati in Italia: c’è una parte di lezione frontale, e una parte di Seminar, ovvero piccoli interventi preparati dagli studenti durante i quali si presenta un argomento e si fa dibattito su quella particolare tematica.

Al mio gruppo capitò l’argomento “Thoreau come riferimento”. Se avete letto Walden ovvero Vita nei boschi, sapete dove voglio arrivare: per due anni, tra il 1845 e il 1847, Thoreau visse da solo in mezzo ai boschi di Walden, in un regime di autosostentamento e abbracciando una vita, se proprio vogliamo dirlo, a basso impatto ambientale. Ed ecco qual è stato il mio primo contatto con questo mondo: un forum di zero wasters dove si parlava, appunto, di Thoreau.

La diagnosi di diabete di tipo 1 è stata una battuta d’arresto fortissima. La gestione di questa malattia comporta la produzione di tantissimi rifiuti plastici, soprattutto a causa degli imballaggi. Dopo un primo periodo in cui ho pensato di abbandonare del tutto lo zero waste, il diabete di tipo 1 è stata la spinta al miglioramento in tutti gli ambiti della mia vita, che mi ha fatto intraprendere con rinnovata convinzione questo percorso. Dovendo produrre così tanti rifiuti per sopravvivere, tutto ciò che non è relativo alla malattia è diventato ancora più urgente: ho imparato a gestire le mie giornate in modo da non produrne troppi.

Ci tengo a precisare che non è facile coniugare questi due aspetti della mia vita, e che penso ogni giorno a quanto io sia privilegiata nel poterlo fare. Il diabete non è una malattia semplice, e comporta un carico mentale altissimo; aggiungere a questo anche una vita a basso impatto ambientale non è semplice e immediato.

Che consigli daresti a chi vuole iniziare a viaggiare in modo sostenibile?

Un buon consiglio è quello di capire sempre quali sono le cose che “ci fregano”. Prima di iniziare il mio percorso zero waste, per me erano le bottigliette d’acqua. Arrivavo in aeroporto e ne compravo una, la buttavo, passavo i controlli e ne compravo un’altra. Due in poche ore. Quattro se consideriamo andata e ritorno. Facendo un ragionamento su quali sono i rifiuti che produciamo di più, è possibile ridurli man mano e cercare delle alternative. Adesso porto sempre con me una borraccia.

Per quanto riguarda il cibo, sarebbe meglio evitare fast food e grandi catene internazionali, ma provare i ristoranti del posto, quelli poco turistici. L’esperienza stessa sarà completamente diversa. Se invece, come me, preferite dei pasti veloci, cercate sempre piccole botteghe, panifici, negozi di frutta e verdura: sarà più facile trovare cibo non imballato.

Un altro consiglio può essere quello di preferire il treno all’aereo. In Italia è impossibile, soprattutto per una questione di costi e per i pessimi collegamenti tra le regioni, ma in altri Paesi, come la già citata Germania, la situazione è migliore. Viaggiare in treno è anche un modo per “rallentare”, per godersi un viaggio più lento, più riflessivo.

Tra i Paesi che hai visitato, quali si sono rivelati più friendly in termini di sostenibilità ambientale? Ci sono state realtà che ti hanno sorpresa negativamente?

Il Paese più friendly che ho incontrato è sicuramente la Germania. È l’unico nel quale mi sposto senza eco-ansia, perché so che troverò sempre qualcosa di alternativo. L’Islanda mi ha stupito in positivo, perché nonostante molti alimenti siano per forza di cose imballati – pensate alla frutta e alla verdura, che viaggio fanno per arrivare fin lì –, nessuno beve acqua in bottiglia: l’acqua nell’isola è sicuramente buonissima, eccetto quando puzza di uovo marcio – è per colpa dello zolfo. In generale in Europa non abbiamo particolari problemi, se facciamo qualche ricerca prima di partire possiamo gestire i rifiuti del viaggio nel miglior modo possibile.

In Giappone ho prodotto in due settimane la stessa quantità di rifiuti di plastica che produco in un anno. Era il mio primo viaggio col diabete tipo 1, e forse anche a causa della lingua, non riuscivo a farmi capire quando dicevo di avere la mia busta o di non darmi le posate, che mi ero portata da casa. Puntualmente, però, nei locali, con un caloroso inchino, mi davano tovaglioli, bacchette e doppia busta di plastica. Anche la frutta e la verdura sono inaccessibili: da un lato per il prezzo, dall’altro perché sono imballate, anche singolarmente, nella plastica usa e getta.

Domanda banale, ma dovuta: qual è stato il viaggio per te più significativo?

L’estate scorsa sono stata in Islanda con Nico [il fidanzato di Michela N.d.R.]. Abbiamo fatto il giro del Ring, con qualche deviazione qua e là, partendo da Reykjavík e puntando verso nord, l’esatto opposto rispetto a dove si dirigono i turisti solitamente. È stato un viaggio difficile, soprattutto perché l’abbiamo intrapreso con macchina e tenda. Ogni giorno alla ricerca di un campeggio diverso, col vento freddo che arrivava da Nord.

Non è stato il viaggio più bello, ma quello in cui ho imparato a convivere con il luogo che mi circondava. Quando siamo arrivati in aeroporto, abbiamo dovuto modificare le prime tappe per via di un’allerta meteo che colpiva Hornstrandir, la punta più a nord dell’isola. Abbiamo preso la macchina e abbiamo iniziato a guidare senza una meta, leggendo la guida e guardando il paesaggio lunare fuori dai finestrini, con la pioggia che non accennava a smettere. È stata la prima volta in cui veramente ho capito cosa significasse vivere nell’attimo presente, senza poter pensare al futuro, anche se immediato. Troppo spirituale? Forse. Ma viaggiare è anche, e soprattutto, questo.

Sappiamo che condividi con noi l’amore per la lettura, hai qualche libro da viaggio da consigliarci?

Ne ho uno che mi accompagna da anni: La montagna incantata, di Thomas Mann. È un po’ un controsenso, perché Hans Castorp, il protagonista, fa l’esatto opposto di un viaggio, soprattutto se lo intendiamo in senso fisico. Cammina, certo, in mezzo alle Alpi svizzere, ma decide di trascorrere il resto della sua vita fermo, immobile, in un eterno presente. Per me, riprendere in mano questo libro ogni volta che sono su un treno o su un aereo, sfogliare le pagine, perdermi e ritrovarmi a Davos, è un piacere che nessun altro libro è riuscito a darmi.

Recentemente, nel tuo blog c’è stato un cambio di rotta con l’introduzione del tema dell’intersezionalismo. Dove pensi ti porterà in futuro?

Sicuramente ad avere meno lettori nel blog.

Scherzo. Credo che ogni percorso di divulgazione, soprattutto di “nicchia” come quello zero waste, a un certo punto raggiunga un limite. Instagram, per esempio, in questo momento è saturo di contenuti di questo tipo, anche a causa dell’iniziativa Plastic Free July, che ha spinto moltissimi a condividere sempre le stesse cose riguardanti prodotti a basso impatto ambientale, gesti quotidiani e così via.

Molti di noi però, soprattutto dopo la pandemia e la – morte di George Floyd, hanno iniziato a guardare oltre il proprio orticello, rendendosi conto che la giustizia ambientale che noi diamo per scontata vivendo in un Paese privilegiato del primo mondo è un tema complesso. È quello che è successo a me: io ho sempre parlato di una sola e unica intersezione, ovvero quella tra la mia malattia cronica e il mio percorso zero waste. Per me è stato relativamente facile: ho iniziato quando ero in Germania, Paese all’avanguardia su queste tematiche, e ho continuato avendo a disposizione borracce, acqua pulita, sacchetti di cotone e negozi che vendono prodotti sfusi. Poco distanti da noi, però, ci sono persone che devono combattere anche solo per avere acqua pulita – e non solo nel terzo mondo: vedi il caso di Flint in Michigan. Rendersi conto che queste sono le tematiche di cui veramente vale la pena parlare e sulle quali è necessario fare attivismo, anche solo online, è un atto difficile ma obbligato.

L’altro problema principale, soprattutto per un movimento di nicchia come questo, è “bucare la bolla”: riuscire ad arrivare a persone che non hanno mai avuto alcun contatto con movimenti ecologisti e che, solitamente, non ragionano in termini di riduzione di rifiuti. Queste sono le due strade che continuerò a sviluppare nel mio blog, ovviamente tra un check in e l’altro.

Illustrazione a cura di Caterina Cornale.