Dove rocce, crateri e cascate raccontano leggende: il mio viaggio in Islanda

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L’Islanda ha un legame profondo con l’editoria. Infatti, gli islandesi sono lettori voraci e il numero di pubblicazioni annuali pro capite è incredibilmente alto (in media 1 ogni 222 abitanti). Nel 2019 si è addirittura segnato un record di pubblicazioni in tutti i settori. Sembra quindi naturale che un popolo notoriamente ghiotto di letteratura, miti e leggende non abbia mai smesso di nutrirsi di storie.

Io e M. siamo stati in Islanda l’anno scorso, a fine estate. In poco più di una settimana, viaggiando in macchina sulla statale 1, abbiamo macinato centinaia di chilometri, esplorando i territori sud-occidentali e la capitale, Reykjavík.

Ero consapevole del peso che hanno le storie in questo paese. Per questo, volevo che il mio viaggio fosse un po’ come leggere un racconto. Per questo, durante le ore passate in macchina, leggevo a voce alta i magici racconti dell’Atlante leggendario delle strade d’Islanda, mentre con una mano tenevo aperta la mia fidatissima Lonely Planet. Perché tutto, in Islanda, dalla cascata più maestosa al faraglione più desolato, ha un residuo ancestrale, un significato sottinteso che – paradossalmente – non risiede tanto nella natura, quanto in una qualche favola ideata migliaia di anni fa.

La furia di Testarossa e la metrica del diavolo

La prima tappa del viaggio è un gioiello a circa centocinquanta chilometri dalla capitale: la penisola dello Snæfellsnes. La nostra Hyundai I20 si infila nel tunnel di sei chilometri che corre sotto l’Hvalfjörður, il fiordo della balena. Nella baia soprastante si dice che un tempo nuotasse Testarossa. Testarossa era una terribile balena, e prima ancora un marinaio miscredente punito per la sua insensibilità. Oggi le acque sono tranquille: la minaccia venne neutralizzata dall’astuzia di un parroco, che spinse il gigante a incunearsi nella testa del fiordo, condannandolo a morire lì.

Non molto lontano dall’Hvalfjörður si comincia a intravedere lo Snæfellsnes. Questa penisola è considerata un bignami delle bellezze d’Islanda. Vi si trova di tutto: un ghiacciaio-vulcano, qualche fattoria sperduta, malinconiche spiagge di sabbia nera e spettrali campi di lava. Un paradiso in terra, custode di bellezze vertiginose e solitudini perfette.

A sinistra: i rottami di un peschereccio a Djúpalónssandur (sopra) e la spiaggia di Malarrif con i suoi faraglioni (sotto). A destra, tramonto sui fiordi, in cima a Súgandisey.

Ecco comparire all’orizzonte Malarrif, una distesa di ciottoli neri levigati dall’oceano. Sullo sfondo, nel cuore della penisola, lo Snæfellsjökull, quel cratere vulcanico ricoperto di ghiaccio che Jules Verne elesse accesso per il centro della terra. Più in giù, invece, la scogliera di Þúfubjarg. Sulla sua roccia nuda, il poeta del ghiaccio Kolbeinn sfidò il diavolo a una gara di distici e batté la sua metrica infernale.

Più a nord, ecco Djúpalónssandur, una spiaggia puntellata dai rottami arrugginiti di un peschereccio inglese. Da qualche parte ci sono ancora le tre pietre – Maciste, Mezzoforte e Moscio – con cui i pescatori di una ciurma fantasma si sfidavano in baldanzose gare di forza.

Infine, ecco Stykkishólmur, con le sue casette variopinte accatastate attorno al porto. In cima a Súgandisey, un isolotto basaltico ricoperto d’erba, appoggiati a un minuscolo faro rosso osserviamo il sole sprofondare tra i fiordi, mentre la notte promette qualche accenno di aurora boreale.

Una montagna sacra in giardino, e altre meraviglie a buon mercato

In Islanda può capitare di ereditare luoghi magici o anfratti mozzafiato tra i beni di famiglia. Questo è il caso di Helgafell, un’antica collina sacra alle porte di Stykkishólmur. Infatti, per accedere a quest’angolo benedetto di terra, oggi bisogna pagare quattrocento corone al fattore che lo possiede. Ne vale la pena, per poter salire sulla collina ed esprimere tre desideri. La tradizione assicura che si avvereranno, a patto di non voltarsi mai indietro e non parlare a nessuno durante la salita.

La vista da qui è indescrivibile. A farci compagnia, solo due pecore belligeranti. Scendendo, diventa improvvisamente chiaro perché è vietato voltarsi: ai piedi del monte, di fianco alla fattoria, un laghetto dalle acque metallizzate calamita lo sguardo.

Un altro gioiello privato è Kerið: un cratere di terra rossa ricolmo di acque verde smeraldo a quindici chilometri da Selfoss. Camminare discendendo le pareti di roccia in direzione del lago è un’esperienza che ha insieme qualcosa di infernale e di celestiale. Kerið, un ossimoro naturale che si può visitare pagando quattrocento corone.

Anche nella Reykjavík dei negozi di souvenir dai prezzi proibitivi e dei ristoranti cari esiste ancora qualche meraviglia a buon mercato. Infatti, con un biglietto da 1840 corone è possibile visitare le tre sedi del Reykjavík Art Museum, tra le quali c’è l’Ásmundarsafn, la minuscola casa-museo dello scultore Ásmundur Sveinsson. All’interno, un ragazzo – custode, guida e bigliettaio – accoglie i visitatori come se fosse a casa sua, spingendoli a curiosare tra le sculture e offrendo loro una tazza di caffè.

Un’ascia incantata, una pentola di foglie e un amore turbinoso

Il Circolo d’oro è probabilmente l’itinerario più famoso d’Islanda. In meno di sette ore questo circuito conduce nel cuore della storia millenaria del Paese, custodita da alcune tra le più spettacolari delle meraviglie islandesi.

La prima tappa è il Parco nazionale del Þingvellir: una piana solcata da ruscelletti color zaffiro e speroni di roccia grezza. La collisione tra la placca tettonica del Nord America e quella europea ha ridisegnato il paesaggio migliaia di anni fa. L’asta di una bandiera segnala il punto in cui nel 930 venne fondato il primo parlamento democratico del mondo, l’Alþingi. Secondo una leggenda, fu il re di Norvegia a predirne il luogo esatto. Lo avrebbe indicato il fiume in cui si sarebbe incagliata l’ascia magica usata per uccidere la trollessa Jóra di Jórukleif. E infatti ancora oggi le rive dell’Oxara – “il fiume dell’ascia” – sono conosciute come il luogo in cui è nata l’Islanda.

La seconda tappa non ha bisogno di presentazioni. È la sorgente di acqua calda per antonomasia: Geysir. Il parco geotermale che lo circonda ribolle di fumarole, geyser e pozze d’acqua che raggiungono i cento gradi di temperatura. Geysir, che un tempo zampillava fino a ottanta metri d’altezza, oggi è invece quiescente. Gli ha rubato la scena un vicino più esuberante, Strokkur, i cui getti d’acqua prorompono circa ogni dieci minuti. In questa zona, nei pressi di una chiesa locale, è sepolto il gigante benevolo Bergþór. Ancora oggi si ricorda la stoltezza del contadino che si occupò della sua sepoltura. Infatti, snobbò la pentola di foglie che il gigante gli aveva lasciato in dono, senza sospettare che sarebbe bastato portarle oltre la soglia di casa per vederle trasformarsi in oro.

L’imponente cascata di Gullfoss

La terza tappa è Gullfoss, la cascata d’oro. La vista è imponente: le acque impetuose si avvitano su se stesse in un doppio salto, prima di gettarsi in un burrone tra la foschia e qualche arcobaleno. Gullfoss è legata a doppio nodo alla storia della prima ambientalista islandese, Sigríður Tómasdóttir. Questa ragazza, all’inizio del Novecento, lottò per difendere la cascata dalle mire di avidi imprenditori. Per questo camminò a piedi nudi da qui fino a Reykjavík in segno di protesta. Tuttavia, Gullfoss non è solo un simbolo di libertà, ma anche di amore vero. Infatti, secondo una leggenda, le acque turbinose della cascata impedivano il congiungimento di due giovani innamorati. È l’idea folle di lanciarsi nel fiume e attraversarlo rischiando la vita a far vincere al protagonista la mano e il cuore dell’amata.

Selfoss – una placida cittadina scelta dallo scacchista Bobby Fisher come rifugio sicuro contro i complotti del mondo – è la tappa conclusiva del circuito. Sotto il ponte che porta in città, la vista delle Jóruhlaup – due pietre imponenti affondate nel fiume Ölfusá – ci portano alla memoria una vecchia conoscenza. La trollessa Jóra di Jórukleif deve essere passata anche di qua.

Forzieri perduti, elfe domestiche e massicci terrori

Nel piovoso sud c’è un’infinità di piccole chicche nascoste che vale la pena cercare.

Prendendo la statale 1 in direzione di Vík, è d’obbligo fermarsi a Reynisfjara, la più celebre spiaggia di sabbia nera del mondo. Teatro di grandi produzioni cinematografiche quali Rogue One: A Star Wars Story e Game of Thrones, Reynisfjara è una grande mezzaluna nera delimitata a est da imponenti colonne basaltiche e a ovest dal promontorio di Dyrhólaey. Spaventosi cavalloni e onde anomale minacciano i turisti sbadati e i fotografi troppo ambiziosi.

Un’altra tappa obbligata è Skogafoss, la cascata più fotografata d’Islanda, sotto la quale si dice sia stato perduto un forziere ricolmo di grandi ricchezze. Ma il mio cuore, diviso tra il fascino archetipico delle leggende e quello dei misteri insoluti della postmodernità, mi ha spinto a cercare altrove le meraviglie inaspettate della regione.

Da sinistra a destra: turisti in ammollo in una piscina dispersa nel nulla; il Douglas DC-3 schiantatosi a Sólheimasandur; la sabbia nera di Reynisfjara.

La prima l’ho trovata su una spiaggia ventosissima di nome Sólheimasandur. In questa plaga desolata e vagamente aliena, nel 1973 si è schiantato un Douglas DC-3. Dopo quattro chilometri a piedi ci si ritrova in mezzo al nulla, in una dimensione in bianco e nero, assordati dal silenzio e dal tonfo attutito di un oceano invisibile, ai piedi dei resti dell’aereo sventrato.

Per raggiungere la seconda, invece, bisogna avventurarsi sulle terre incontaminate nel retro di una fattoria privata. Tra le rocce nere spruzzate di arbusti regna un silenzio soprannaturale. Da queste parti si pensa che Una, un’elfa impiegata come domestica in una fattoria di Rauðafell, stendesse il suo drappo magico per raggiungere il mondo sotterraneo.

A venti minuti dall’ultimo insediamento umano, tra la natura incontaminata compare qualcosa di inaspettato: una piscina riscaldata, costruita nel 1923. Alcuni tubi corrono lungo il versante della montagna, mentre le teste dei turisti ondeggiano a bordo piscina. Mi aggiro senza fiato come un’esploratrice che ha scoperto un mondo nascosto, ma subito mi decido a lasciare i bagnanti alla loro pace.

È ora di rientrare. Sulla via del ritorno, c’è giusto il tempo di rabbrividire vedendo emergere dalla foschia del crepuscolo l’imponente massa dell’Eyjafjallajökull. È proprio lui il vulcano che nel 2010 ha bloccato il traffico aereo europeo, e sembra dire che non ha intenzione di ravvedersi.

Mostri marini e streghe cotte a puntino

Trovandosi in corrispondenza della frattura tra due placche tettoniche, il sud-ovest è una zona ricca di paesaggi vulcanici e di sorgenti geotermali.

Uno di questi prodigi della natura si trova a Hveragerði e si chiama Reykjadalur. Nel cuore di questa valle geotermale scorre un fiume caldo balneabile. L’unica traccia del passaggio umano sono un paio di passerelle di legno e dei divisori che proteggono i bagnanti dalle sferzate inclementi del vento. Sotto una pioggia tagliente, spogliati dai vari strati di vestiario, ci immergiamo nel fiumiciattolo dalle acque calde e limacciose. Una nebbiolina vela i rilievi neri circostanti, puntellati di pecore pigre. Una coppia di viaggiatori, italiani come noi, si offre di immortalare il momento: siamo inzaccherati e intirizziti dalle spalle in su, ma felici.

In grande a sinistra: le terre rosse della valle geotermale di Gunnuhver. A destra:  i colori iperrealisti di Seltún (sopra) e la valle termale di Reykjadalur (sotto).

Più a ovest c’è Seltún, un’altra sorgente geotermale che si trova nei pressi del lago di Kleifarvatn. Le strade che lo fiancheggiano sono inspiegabilmente deserte. Le sponde nere di cenere vulcanica e gli speroni rossicci gridano all’ingiustizia. Ci fermiamo sulla riva per qualche minuto nella speranza di avvistare il temibile mostro marino che lo abita, per poi proseguire verso Seltún. Qui ci aggiriamo tra le pozze di acqua iridescente e ci scrutiamo attraverso il fumo delle solfatare. I colori sono così intensi che sembra di vivere non dentro la realtà, ma in una sua copia iperrealista.

L’ultima sorgente è all’estremità sud-occidentale della penisola di Reykjanes. Per raggiungerla, superiamo cave e cantieri abbandonati, campi di lava infiniti e città portuali da film dell’orrore. Poco prima dell’oceano, il cielo imbiancato la annuncia: siamo entrati nella valle geotermale di Gunnuhver. Una nuvola bianca trabocca da una crepa nella terra rossa e nasconde, travolgendola, ogni cosa. L’oceano è solo un rumore sordo che si ripete oltre le colline, suggerito dalla presenza di un faro all’orizzonte. Più indietro, si vedono le imponenti strutture industriali che incamerano l’energia geotermica necessaria a fornire elettricità a tutta la nazione. L’aspetto steampunk di queste costruzioni si concilia con l’atmosfera da avamposto spaziale, eppure persiste qualcosa di arcaico. Sarà forse il fantasma della strega Gunna, che secondo una leggenda truculenta fu gettata viva nelle acque bollenti della sorgente? La terra rossa ricorda il sangue, il silenzio ha qualcosa di mortifero.

Un addio ai passati e ai futuri lontani

Il nostro viaggio è giunto al termine. Bisogna prendere commiato da questa terra di leggende eterne, di acque incandescenti e di pericoli affascinanti. L’Islanda, un Paese che fortunatamente non ha ancora rinunciato all’inumano, al sovrannaturale, alla selvatichezza. E che per non dimenticare di essere anche terra di uomini e di umanità, ha continuato a sfogliare libri.

Foto di Marta Gulinelli.
Illustrazione e rielaborazione grafica a cura di Noemi D’Atri.