la macchia mongolica

La macchia mongolica: un diario di viaggio sulle tracce di un passato presente

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Un tempo veniva scambiata per segni di abusi sulla pelle dei neonati, ma si tratta soltanto di un’incompleta migrazione di melanociti verso l’epidermide durante lo sviluppo embrionale. Il nome scelto per definire questa peculiarità della pelle neonatale è macchia mongolica e in realtà è tutto meno che “soltanto” una macchia. Infatti, questo segno blu che scompare durante i primi anni di vita è ricco di storie, leggende e significati simbolici e scientifici. La maggior parte dei miti su queste formazioni intradermiche di natura benigna proviene dalle tradizioni di antichi popoli asiatici, primo fra tutti il popolo mongolo.

Tiziano Terzani ne parlò nel libro Un indovino mi disse, uno dei tanti titoli scritti per raccontare dei suoi viaggi di lavoro e di piacere in Asia. Durante uno dei questi, una studentessa di francese gli raccontò una delle leggende legate a questa macchia: essa fiorirebbe su glutei e schiena dei bambini mongoli per testimoniare la loro discendenza da grandi cavallerizzi. In un’altra storia, invece, sarebbe traccia dello schiaffo di una nonna fantasma che protegge i neonati, percuotendoli per sollecitare il primo respiro, il pianto della vita.

Per Caterina Zamboni Russia la macchia mongolica è una realtà personale, intima e familiare, un’eredità genetica che la lega tanto alla Mongolia quanto alla sua terra natale, l’Emilia-Romagna.

Nata nel 1998 e laureata in Filosofia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha pubblicato per Baldini+Castoldi La macchia mongolica, scritto a quattro mani con il padre Massimo Zamboni chitarrista, compositore del noto gruppo punk italiano CCCP e scrittore. Il libro consegna al lettore qualcosa in più di una storia o un saggio: offre la condivisione di un’esperienza tramandata di padre in figlia. Si tratta, infatti, di un diario di viaggio intergenerazionale, una saga familiare e una scoperta filosofica, sapientemente intrecciati in un eccezionale racconto di vita vissuta.

Com’è nata l’idea di rendere il tuo viaggio per il diciottesimo compleanno un romanzo?

Credo che molti libri nascano da una forma di necessità, sia questa espressiva, personale o stilistica. Nel mio caso, l’idea nasce dalla necessità di fare i conti con le proprie origini, con un senso di appartenenza che avvolge ognuno di noi e che basta ascoltare per rendere proprio. Scoprire la nostra identità come infinitamente legata alla terra – due nel mio caso: EmiliaRomagna e Mongolia –, vivere nei risvolti inaspettati che essa porta con sé, abituarsi al permanere e all’appartenere: questi sono i sentimenti che hanno accompagnato il mio incontro con la Mongolia e che quel viaggio non ha fatto altro che riconfermare. 

La struttura particolare con cui il libro è scritto è stata pensata da subito così come la vediamo o ha richiesto un’elaborazione, e quindi c’è una ragione specifica per averla impostata in questo modo? Com’è stato lavorare a quattro mani con tuo padre?

Il libro è nato come lo vediamo, escludendo le ovvie correzioni, ripetizioni, cancellature e segni rossi. La sua struttura ripercorre il ciclo dei nostri pensieri così come sono stati formulati: un primo viaggio, l’esplorazione di una terra e di una certa idea di genitorialità; un secondo viaggio di riconoscimento, ricerca, cercata comprensione; un ultimo viaggio, di ricongiungimento consaputo. Le parole erano chiare a me e ai miei genitori ben prima di partire: è stato sufficiente scriverle e renderle reciprocamente comuni.

Come definiresti il tuo libro? Un viaggio filosofico o una filosofia di viaggio?

Prima della partenza avrei risposto senza tanto rifletterci “un viaggio filosofico”. I molti ragionamenti in famiglia sull’elaborazione di questo viaggio e il costante pensare e ripensare al suo significato ultimo hanno circondato la Mongolia di un fascino filosofico, letterario e artistico. Eppure, questi presupposti, com’era prevedibile, sono mutati durante il viaggio stesso, regalandomi nuovi occhi per capirne l’essenza intima: la necessità del farsi abituale con le cose è diventata la mia personale motivazione e spinta propulsiva di ogni ulteriore viaggiare – la necessità del fermarsi, del permanere nel luogo, del rendersi costante: questo ciò che ricerco nei luoghi in cui soggiorno.

Cos’ha significato per te la Mongolia e perché il titolo La macchia mongolica?

La macchia mongolica è l’emblema del riconoscimento. Una piccola percentuale di nati europei nasce portando sulla schiena un livido bluastro, chiamato appunto “macchia mongolica” – livido che scomparirà nel corso degli anni, ma che porta con sé la testimonianza di una antica provenienza dalla Mongolia, la terra in cui ogni neonato indossa quella macchia. E quando, durante un lungo viaggio nella steppa, i miei genitori decidono di avere un figlio e quella figlia nasce con la macchia mongolica, le coincidenze sono troppo forti per non volerle ascoltare. Nasco io, portando in me un doppio provenire, una necessità di riconoscimento con una terra che mi ha in parte dato le origini. Riflettendoci, scopriamo che ognuno di noi ha in sé molte più identità di quante ne potrebbe immaginare: indagandole, ognuno incontrerà la propria macchia mongolica. 

Quanto è stata importante la tua formazione filosofica durante la scrittura?

Direi molto importante. L’incontro tra la lingua tedesca e la filosofia mi ha saputo affascinare più di quanto credessi: avendo studiato e studiando entrambe mi sono sempre più resa conto della profondità delle suggestioni che portano con sé. Ad esempio, due sono le parole che animano il libro: Sehnsucht e Heimweh. A una iniziale Sehnsucht – nostalgia, brama di infinito, necessità del viaggio come esplorazione – si sostituirà nel corso del libro (ma anche del documentario e dell’album) una radicata Heimweh – letteralmente, un “dolore per la casa”, una consapevole e voluta stanzialità, un’abitudine. Parole, queste, profondamente filosofiche e insieme profondamente vissute.

Ci racconteresti qualcosa in più sulle donne e la loro funzione nel lamastero [struttura architettonica che include il tempio e gli alloggi dei monaci lama e dei loro apprendisti, N.d.R.]? Rispetto alle religioni occidentali – quindi cristiana e derivate – che differenze ci sono nel rapporto religione/femminilità?

La vita al monastero – e potremmo dire in Mongolia, più in generale – è avvolta nella sua naturalezza: ogni cosa conserva un ruolo che le è proprio e che è completamente integrato con il circostante. Senza nemmeno il bisogno di indagarle, le cose si presentano nel loro modo di essere e stupisce vedere la totale mancanza di contrasti. Appare fascinosa, almeno ai miei occhi, la gratitudine dei monaci nei confronti delle uniche due cuoche del lamastero: ma si tratta di una gratitudine naturale, non fittizia, altrettanto contraccambiata da quella che le due donne provano nell’ascoltare le preghiere dei monaci per loro.

Ognuno ha il suo ruolo in Mongolia e ognuno lo svolge in favore di un altro: ai lama spetta pregare per l’uomo, alle due donne cucinare per i lama, alle mandrie far sopravvivere la famiglia. Sono rapporti non scritti e sempre reiterati, sentiti e riconoscibili. E così persino il rapporto femminilità-religione si situa appieno in queste dinamiche: segue una naturalezza da tutti condivisa, ripercorre forme scritte da secoli, con un attaccamento mai conflittuale al passato. Semplicemente è, con tutta la spontaneità con cui deve essere.

Come è stato fare lezione d’inglese ai lama? Conosci la lingua mongola? La comunicazione, culturale e linguistica, incontrava ostacoli particolari?

Le lezioni sono state una parte minoritaria del mio risiedere al monastero di Shankh. Vedere i monaci seduti ad ascoltarmi – cosa che mi ha causato non poco imbarazzo – mi rendeva spesso inquieta: cosa potrei insegnare? Può portare loro qualcosa la conoscenza di qualche parola d’inglese? La risposta penso sia scontata. Ma allo stesso tempo, ripensandoci oggi, dovrebbe valere anche la domanda complementare: cosa può portare a me, qui in Italia, una conoscenza di base della lingua mongola, così come me l’hanno insegnata i lama?

E la risposta è: tantissimo. Incontri, innanzitutto; sorrisi e suoni che non avrei saputo cogliere altrimenti; senso di comunità, amicizia. Al di là delle difficoltà comunicative o culturali, è conoscendo la lingua dell’altro che ci si può riconoscere a vicenda. Tornando a Shankh oggi, avendo dimenticato io il mongolo e i lama l’inglese, penso la reciproca simpatia sarebbe immutata. 

È interessante il modo in cui si parla del nutrimento e del concetto di famiglia (gher e gher-buel in lingua mongola). Cosa ti ha insegnato la tua esperienza su questi aspetti della vita quotidiana? Soprattutto, è diverso il tuo modo di percepire il tempo, dopo essere stata in Mongolia? Ti è rimasto qualcosa della lentezza e della circolarità del senso del tempo mongolo o, una volta tornata in Italia, ti sei riadattata alla maniera occidentale? Quanto ti ci è voluto?

La condivisione di un ambiente ostile avvicina gli uomini. In un luogo così avverso nei confronti di chi lo abita, la famiglia e la comunità degli estranei diventano fondamentali alla sopravvivenza. Entrando in una tenda mongola, una gher, la famiglia ospitante mette a bollire l’acqua per il tè, uccide una pecora e prepara da mangiare: superflua ogni presentazione, si invitano completi estranei nella propria quotidianità, avvicinando quelle distanze che la steppa impone. Ogni altra modalità, ogni freddezza verso il non conosciuto renderebbe impossibile la vita in Mongolia, resa già difficoltosa dall’ambiente circostante.

È la lentezza di questi procedimenti ad avermi incantata: ritualità, attesa, condivisione del difficoltoso si distendono in un tempo largo quanto la steppa, regalando all’uomo la possibilità di un continuo rallentare. 

Sfida: definisci per noi il “vuoto della steppa” in tre parole.

Distensione pianeggiante consapevole.

Quanto e come è cambiato il tuo rapporto con la religione dopo questa esperienza?

Diciamo che l’ho incontrata per la prima volta. Essendo cresciuta con un’educazione atea ho sempre provato una forte estraneità – talvolta non voluta – verso il religioso: una difficoltà di comprensione, una incapacità di ragionarla, una separazione quotidiana. La Mongolia, prima ancora che il monastero, ha saputo delinearla in un modo così netto da non poterla più ignorare: ho trovato un fare religioso nel permanere, nella contemplazione dell’abituale, nell’amore per il circostante. 

Che tipo di viaggiatrice sei?

Una di stato più che di moto.

I paragrafi e i capitoli vengono divisi sempre in maniera diversa e a volte lo stacco tra uno e l’altro è rappresentato da una parola tra parentesi, ad esempio: (luce), (buio), (steppa). A cosa è dovuta questa scelta stilistica?

È dovuta al susseguirsi degli avvenimenti nel corso del mio riflettere: l’arrivo del buio, il trascorrere di una giornata, un’ora nella steppa. In un luogo che non regala novità né modificazioni, gli eventi si fanno non necessari, le date indifferenti, regalando a chi li vive l’abitudine del permanere.

La macchia mongolica non è tipica soltanto della popolazione della Mongolia, ma anche dei popoli polinesiani, asiatici e africani orientali. Hai mai pensato di fare un test di genealogia genetica per scoprire se sei davvero di discendenza mongola?

Sì, ma non ho davvero intenzione di farlo. Voglio mantenere vivo il mistero. Non solo per gli altri: prima di tutto per me.

Illustrazione a cura di Martina Nenna.
Fotografie di Caterina Zamboni.