La vera storia di Berio e Calvino: l’opera lirica e il suo superamento

La vera storia di Berio e Calvino: l’opera lirica e il suo superamento

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La musica e la letteratura; l’arte e i suoi diversi approcci. Due geni che hanno saputo intendersi e superare se stessi in vista di una produzione teatrale al di là dei canoni tradizionali. L’opera lirica: musica che esprime parole, parole che esprimono musica. E ancora di più se a giocare con i diversi linguaggi sono dei maestri, capaci di portarli all’estremo. Questa è la storia – che forse non tutti conoscono – della collaborazione tra il compositore Luciano Berio e lo scrittore Italo Calvino, e di come arti e pratiche che li contraddistinguono si siano unite per creare La vera storia.  

La vera storia: il ruolo dello scrittore

A detta di Italo Calvino, il suo sembra essere un compito secondario in confronto a quello del musicista. In effetti, se si pensa a quella tipica produzione del Made in Italy che è l’opera lirica, non si può prescindere da un interesse che sia anzitutto musicale. Credo siano pochi quelli che, prima di addormentarsi o mentre aspettano l’autobus, leggono libretti d’opera. Su un tram di Bonn ne ho visto uno, una volta, quindi non me la sento di negare completamente la possibilità che ciò accada. Di certo si è trattato di un’eventualità curiosa, ecco. 

Tornando a noi, resta che Berio ha voluto che fosse proprio Calvino a scrivere i libretti di La vera storia. E lo scrittore non si perde in elucubrazioni profonde per cercare di definire il proprio ruolo nell’operazione: «Il fatto musicale, ad un certo punto, aveva bisogno della parola» (dall’intervista a Calvino di L. Arruga per «Musica Viva», VI, febbraio 1982, n.2). Infatti, per definizione, a fare il melodramma sono sì la musica, il canto, le scene e i costumi, ma anche «un testo poetico appositamente predisposto» – il libretto, appunto (dalla definizione dell’Enciclopedia Treccani) – e serve qualcuno che lo scriva.

Un’opera d’avanguardia

Ora, a occuparsi del già citato “fatto musicale” è Luciano Berio, il quale ha molto care le opere della tradizione – basti pensare che La vera storia è dichiaratamente ispirata a Il Trovatore di Verdi. Da bravo avanguardista e sperimentatore, intende partire da questa tradizione, utilizzarne i canoni per creare qualcosa di completamente nuovo. Il suo intento è quello di sovrapporre stili e tecniche di composizione, fonderli insieme e nuovamente dividerli. Ne La vera storia ci sono un’orchestra, un coro e dei cantanti. In scena, però, possono agire e diventare protagonisti anche un chitarrista o una fisarmonicista, per citare altre eventualità curiose.

Oppure, dal contrappunto rinascimentale e barocco si può passare agilmente alle sonorità del jazz. Tutto questo e molto altro fa Luciano Berio nella sua opera lirica, definita in realtà come “azione musicale in due atti”. L’opera viene messa in scena per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano nel 1982. Il compositore ha già le idee chiare quando chiede a Calvino di ritornare a essere il suo librettista. Ritornare, sì, perché i due collaborano già alla fine degli anni Cinquanta per il racconto mimico Allez-Hop e rinnovano il sodalizio anche dopo La vera storia per dare vita a un’altra azione musicale in due atti, Un re in ascolto (1984).

Un rapporto dialettico: tesi, antitesi e sintesi

Perché, dunque, scegliere Calvino come autore dei testi? Anche in questo caso la risposta è piuttosto semplice. L’autore de Le città invisibili è in grado di fare con il linguaggio letterario quello che Berio fa con la musica. Sa combinare parole, simboli e significati tradizionali in modo del tutto nuovo e originale.

Avanti tutta, quindi. Ma c’è un problema. Per quanto Calvino sia abile nel creare strutture nascoste e giochi linguistici, non può prescindere innanzitutto dalla lingua italiana e, in seconda battuta, dalla narrazione e dal suo sviluppo. O meglio, potrebbe, ma il risultato si discosterebbe da quello che dovrebbe essere un’opera lirica. Essa ha bisogno di una vera storia per essere tale. Deve avere dei personaggi, un antefatto, uno svolgimento e, possibilmente, una conclusione. 

Alla tesi proposta da Berio – sperimentiamo, sfruttiamo la tradizione ma superiamola, mettiamo in scena un’opera che vada oltre i suoi stessi canoni – si contrappone allora l’antitesi di Calvino, una sorta di limite insuperabile insito nell’arte della scrittura e della narrazione. Limite che le pratiche del compositore possono facilmente aggirare, dal momento che il linguaggio musicale non è costretto a seguire delle convenzioni per essere compreso. Berio, a differenza del suo collaboratore, ha quasi totale libertà. Come fare?

Il musicista mostra tutto il suo genio avvalendosi della posizione privilegiata che ha all’interno del processo creativo per attuare la sintesi dialettica. In questo modo, dà vita a un prodotto in grado di unificare e superare le due posizioni di partenza.

La vera storia, “opera e no”

L’azione musicale è suddivisa in due atti. Nel primo, protagonista è la vicenda. Una festa popolare sfocia nella violenta esecuzione di un condannato. Sua figlia Ada, per vendetta, rapisce il bambino del tiranno Ugo, che muore di dolore. Gli succede Ivo, che sfrutta il potere appena acquisito per rivalersi su Luca sfidandolo a duello. L’oggetto della contesa è Leonora, di cui entrambi sono innamorati, ma del cui amore nessuno dei due potrà godere. Ivo rimane gravemente ferito e Luca finisce in prigione. Sullo sfondo dell’ultima sanguinosa repressione della folla inferocita riemerge Ada, che conclude la storia con l’aria Il ricordo, in cui riflette sul dolore e sulla disperazione cantando la speranza in un futuro migliore.

Un intreccio piuttosto tradizionale che, come accennato, si rifà parzialmente al Trovatore e richiama anche la Cavalleria rusticana di Mascagni e il verismo. Lo stesso titolo, La vera storia, deriva dall’espressione tipica dei cantastorie siciliani: «Venite, ora vi racconto la vera storia di…». In questa prima parte Calvino è re. Offre al pubblico una vicenda perfettamente fruibile, esposta per sommi capi ma chiara, e rafforzata da un altissimo livello poetico che mescola metrica e rime a discorsi quasi in prosa. La musica fa da spalla, esalta e completa l’espressività del testo.

Ma il secondo atto è tutta un’altra storia. È qui che Berio mette in pratica il suo piano rivoluzionario. Niente più trama né personaggi. In scena agisce soltanto il coro, la folla, che si impadronisce di ruoli, libretto e musica e li rimescola. Il testo di un’aria viene eseguito sulla linea melodica di un’altra, la successione ordinata degli eventi non esiste più. Soltanto Ada e il suo canto di speranza ritornano alla fine, anch’essi reinventati. L’intento è sempre far riflettere il pubblico sulla ferocia, sull’ingiustizia e sulla verità degli eventi che vedono coinvolti gli esseri umani e che intessono rapporti. Verità non sempre univoca e spesso non facile da accettare. 

La vera storia è la sintesi definitiva – un’«opera e no», per citare Berio – un prodotto artistico che sfugge ai canoni che contraddistinguono l’opera lirica, pur presentandoli tutti in maniera evidente.

Se non ci fosse stato Calvino, la musica non sarebbe stata capace, da sola, di far arrivare La vera storia là dove il compositore voleva portarla. Senza le ancore del linguaggio e i paradigmi della letteratura il pubblico si sarebbe smarrito. Allo stesso tempo, se non ci fosse stato Berio, La vera storia sarebbe rimasta una narrazione fine a se stessa. Una storia simile a tante altre in cui ci sono un buono, un cattivo, un duello e una morale. Senza il superamento delle convenzioni e lo stravolgimento possibile soltanto al linguaggio musicale, la storia di Ada, dell’ingiustizia e della speranza sarebbe rimasta soltanto la sua. Alla fine dell’opera, invece, essa si trasforma in una questione e in una speranza collettiva.

Ultimo fatto curioso: l’opera viene presentata ovunque come La vera storia di Italo Calvino, con musiche di Luciano Berio”. Come accennato in apertura, da un’opera lirica ci si dovrebbe aspettare il contrario. Ma La vera storia non è un’opera convenzionale, così come non lo è la pratica artistica dei suoi autori. Il compito di Calvino non è stato poi così “piccolo” come lui voleva far intendere. Ancora più grande è stata la maestria di Luciano Berio, che dall’alto della libertà della sua arte ha saputo riconoscere la necessità di filtrarla attraverso un’altra, più limitata forse, ma che ha reso unica la sua creazione.

Illustrazione a cura di Noemi D’Atri