Il Disagio e il riscatto: le dipendenze in Infinite Jest

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Per chi non lo sapesse, Infinite Jest è un romanzo di David Foster Wallace, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1996. Nel mondo dei lettori, ha suscitato un certo scalpore per il suo spessore fisico, forse anche più che per il contenuto. Al di là delle battute, si è anche rivelato un caso letterario, che viene annoverato tra i capolavori della letteratura contemporanea. Resta il fatto, però, che si tratta di un libro enorme

Qualche anno fa, sulla pagina Facebook di Freeda (il progetto editoriale che celebra la libertà delle donne) è apparso un simpatico articolo su come riuscire a trovare il tempo per leggere. L’autrice confessava di avere Infinite Jest sul comodino da sei anni, con il segnalibro fisso a meno della metà del tomo e, in questo episodio di vita, il romanzo di Foster Wallace diventava la rappresentazione della “lettura interminabile”, per quanto interessante.

Avendolo letto, non nego che l’oggetto-libro Infinite Jest, a prima vista, possa provocare una certa titubanza; ammetto anche che lo stile e l’approccio dell’autore al mondo possano non risultare propriamente immediati. Ma vi invito a superare le difficoltà iniziali perché, una volta assaggiate le sue milleduecentonovantasei pagine, non potrete più farne a meno.

Fuori e dentro il romanzo: dipendenza a più livelli

È un fatto: Infinite Jest crea dipendenza. Fa scivolare in un loop per cui è difficile parlare d’altro e astenersi dal raccontare a chiunque cosa si sta leggendo. Per non parlare, poi, di quando si incontra qualcuno che l’ha letto: discorsi interminabili quasi quanto il loro oggetto! Ciò è dovuto in gran parte al modo maniacale dell’autore di descrivere e sviscerare tutti gli aspetti di ogni evento. Esso rapisce, estrania dalla realtà e lascia in un certo qual modo inebetiti. Inoltre, l’utilizzo magistrale di quasi ogni lemma del linguaggio corrente – per questo va assolutamente applaudito anche il traduttore, Edoardo Nesi – non smette di far sogghignare. Da ogni sessione di lettura si riemerge frastornati e sorridenti, praticamente drogati.

Si dà il caso che Infinite Jest non sia solo il titolo dell’opera: è anche il nome di un prodotto cinematografico, che, nelle pagine del libro, si rivela essere la droga per eccellenza. Non una sostanza che si beve, si fuma o si inietta, ma proprio un film che si guarda e che fa stare così bene da non riuscire più a staccarsi dallo schermo. Questo “scherzo infinito” viene definito più volte come «fantomatico e letale». Fantomatico perché si sa che esiste, ma non si sa dove sia stato nascosto. Letale perché corre voce che chiunque l’abbia visto sia morto a causa dell’impossibilità di fare altro se non restare lì a guardarlo «per il piacere totale di una capra passiva» (D. Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi, Milano, 2006, pag. 569).

Questo tipo di piacevole passività è proprio ciò che ricerca la maggior parte dei personaggi del romanzo. Non potendo entrare in possesso di quello che viene definito come «l’Intrattenimento così perfetto da uccidere chi guarda» (D. Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi, Milano, 2006, pag. 382), tentano di soddisfare il bisogno di evadere dalla realtà facendo uso di strumenti più facilmente reperibili: l’alcol e le droghe. “Il Disagio” – questo il modo in cui viene chiamata in generale, nel libro, la dipendenza dalle sostanze –, oltre che dai singoli atroci trascorsi di vita, è sicuramente scatenato dal contesto generale in cui si svolgono le loro vicende.

Dentro e fuori dal mondo: l’Onan e la Ennet House

Il futuro immaginato da Foster Wallace non è decisamente qualcosa in cui sperare. Gli Stati Uniti fanno parte per metà dell’Onan (Organization of North American Nations), insieme al Canada e al Messico; l’altra metà è stata ridotta a un’enorme discarica, in cui confluiscono scorie velenose, e nella quale i rifiuti vengono lanciati per mezzo di immense catapulte. Negli Stati dell’Onan, la scuola, lo sport e l’intrattenimento vengono «assorbiti a casa» attraverso «impulsi, cartucce, display digitali, arredo domestico – un mercato dello spettacolo fatto di divani e occhi» (D. Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi, Milano, 2006, pag. 743). Persino il tempo viene sponsorizzato dalle aziende, che comprano gli anni e danno loro il nome di prodotti commerciali: il periodo in cui si svolge gran parte della storia, ad esempio, viene indicato con l’acronimo “APAD”, che sta per “Anno del Pannolone per Adulti Depend”.

All’interno di questo scenario folle e distorto, e in contrasto con esso, il mondo dell’alcol e delle droghe non sembra invece essere molto diverso da quello che conosciamo. Le sostanze utili a evadere dalla realtà sono sempre le stesse, così come i modi di procurarsele e quelli di assumerle. La variante, ora, è che lo straniamento provocato dal farne uso appare come la migliore delle alternative. Ma il prezzo da pagare per gli effetti di questa evasione rimane sempre alto: alcol e droghe continuano a distruggere le persone. C’è quindi ancora bisogno di strutture atte al recupero di coloro che cadono nella trappola della dipendenza. Nella cittadina di Enfield, in cui è ambientato Infinite Jest, il luogo votato a tale missione si chiama Ennet House. 

Fuori e dentro la realtà: dipendenza e disintossicazione

Messa così, potrebbe sembrare che la Ennet House, Casa di Recupero da Droga e Alcol, venga dipinta come un’oasi felice, in contrasto con l’orrore del mondo esterno, definito spesso come “Là Fuori”. Non è così, naturalmente: in Infinite Jest non esiste un’oasi felice. Tutto è sempre piuttosto brutto, laido e abietto, compreso il luogo che dovrebbe guarire proprio dall’abiezione, e coloro che vi risiedono non sono da meno: disordinati, rumorosi, puzzolenti, decadenti, sono alcolisti e tossicodipendenti che cercano di uscire da una situazione disperata.

[…] a volte, dopo che la vostra Sostanza vi è stata portata via per salvarvi la vita […], vi troverete a pregare perché vi sia consentito di perdere letteralmente il senno, di avvolgere la vostra mente in un vecchio giornale e lasciarla in un vicolo a cavarsela da sola senza di voi.

D. Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi, Milano, 2006, pag. 240

Il loro percorso non è semplice. Sprofondati nel Disagio per sfuggire alla realtà, sono rimasti vittime della dipendenza e ora cercano di liberarsene. Ma è a questo punto che la realtà diventa ancora più dura: la vita senza La Sostanza, seppure in un posto migliore, sembra decisamente più faticosa della vita con La Sostanza. È un vero e proprio circolo vizioso a cui Foster Wallace dedica pagine e pagine, non trattenendosi quando deve fornire i dettagli più disgustosi, sia del pieno Disagio sia della disintossicazione. Ma perché lo fa? Il suo non è mero gusto dell’orrido, anzi, l’autore ripone nei residenti della Ennet House tutta la speranza che, in fondo, ancora nutre nel genere umano.

Dentro e fuori Il Disagio: orridi simboli della forza umana

[…] improvvisamente puoi volerti fare della tua Sostanza così intensamente da essere sicuro di morire se non lo fai, ma puoi anche rimanere seduto a torcerti le mani con la faccia fradicia di sudore da quanta voglia hai, puoi volerti fare e restare seduto, volere ma non farlo, se vuoi […]

D. Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi, Milano, 2006, pag. 242

Così come lo sfondo dell’intera vicenda, anche i personaggi che ruotano intorno alla Ennet House non hanno nulla di bello, apparentemente. Le loro storie sono sparse per tutto il libro e sono davvero orribili. C’è chi ruba nelle case per pagarsi le dosi; chi ammazza gli animali domestici altrui solo per il gusto di farlo; chi si chiude nei bagni, alle feste, per assumere sostanze fino a perdere i sensi. Ancora più spaventosi sono i racconti a proposito di chi o di che cosa abbia condotto gli sventurati anti-eroi sulla strada del Disagio: madri alcolizzate, padri maniaci, storie di degrado e abbandono. Eppure, con tutti i loro difetti, queste persone combattono ogni giorno per restare “pulite”.

Nonostante tutto, i capitoli dedicati alla Ennet House e ai suoi residenti sono quelli in cui trapela più umanità; sotto forma di abbrutimento, certo, ma anche e soprattutto di forza d’animo e solidarietà. I viziosi, alla fine, si rivelano i più virtuosi. Negli episodi legati alla Casa di Recupero da Droga e Alcol non si respira l’aria apocalittica da futuro distopico che avvelena le altre vicende. A modo suo e contro ogni aspettativa, l’autore riesce effettivamente a ritagliare, in mezzo al caos, uno spazio per il pensiero semplice, familiare, umano.

Non sorprende che David Foster Wallace abbia scelto il rifugio dei reietti come simbolo della forza umana: a differenza dei suoi personaggi, egli non è stato sufficientemente resistente e ha scelto di togliersi la vita, il 12 settembre del 2008. Soffriva di depressione da vent’anni. Fortunatamente, grazie a Infinite Jest e a tutti gli altri suoi scritti, possediamo comunque una traccia del suo sguardo sul mondo: critico, amaro, disilluso, ma assolutamente geniale e inimitabile.

Illustrazione a cura di Francesca Pisano.