Discorsi intorno alla morte: cultura pop, religione e filosofia heideggeriana

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Write abouth death
Describe in the poem what you feel concerning death
In the face of death I’m like an animal
And the animal can die, but write nothing
The words die like flies
Their corpses everywhere swept away from the white paper

Agnes Obel, Poem About Death.

Il brano, tratto dal poema in musica della cantautrice danese Agnes Obel, introduce perfettamente la questione che desidero affrontare in questo novembre dedicato all’al-di-là. È sufficiente estrapolarne due versi: il primo, un invito – «scrivi a proposito della morte», e uno degli ultimi, una rinuncia – «le parole muoiono come mosche». Perché ciò su cui intendo concentrarmi è l’incapacità, diffusa in ogni campo della cultura, di affrontare “autenticamente” la tematica della morte.

Basandomi sulla teoria dell’Esserci come essere-per-la-morte del filosofo Martin Heidegger – niente paura, poi ve la spiego –, vi propongo un excursus culturale. Esso si snoda attraverso videoclip, serie TV, religioni e impianti filosofici, ed è volto a dimostrare come l’impasse di pensiero intorno all’espressione del concetto di morte sia perfettamente umana e normale. Il termine “autenticità” e le sue declinazioni saranno sempre intesi nel loro senso esistenzialista, ossia quello per cui “autentico” è «ciò che appartiene alla natura più propria dell’uomo». (Autentico/inautentico, in Dizionario di filosofia, Roma, Treccani, 2009.)

Salvezza: in fuga dalla morte

Prendo le mosse da un esempio ormai un po’ datato, ma efficace al fine di introdurre la mia riflessione. Si tratta del video musicale della canzone Savin’ me, proposto al pubblico mondiale nel 2005 dalla rock band canadese Nickelback. I protagonisti del videoclip, ambientato per le strade di una grande città, possiedono un potere speciale: sono in grado di vedere delle serie di numeri che scorrono sopra alle teste dei passanti. Le cifre rappresentano la quantità di tempo che resta loro da vivere. Naturalmente, nel corso della storia, alcuni di essi si trovano in situazioni di pericolo, per cui il countdown si approssima allo zero e gli “angeli” improvvisati si adoperano per salvare loro la vita. I numeri tornano a scorrere, la morte è stata evitata.

Traggo altri buoni esempi da due serie TV americane, anch’esse risalenti a qualche tempo fa. La prima è Person of Interest, terminata nel 2016 e definibile fantascientifica, in quanto incentrata su una macchina ideata appositamente per individuare le potenziali vittime di crimini e attentati. Un po’ come nella vicenda narrata nel videoclip, anche in Person of Interest gli eroi della situazione sfidano la legge e il governo per sventare gli attacchi alla vita delle persone, impedendone la morte.

Dai toni più fantastici è invece la seconda serie cui intendo fare riferimento, Tru Calling. Trasmessa tra il 2003 e il 2005, ha per protagonista una ragazza impiegata in un obitorio. I cadaveri di cui deve occuparsi, se non sono morti per cause naturali, spalancano gli occhi e le chiedono aiuto. Tru possiede la capacità di rivivere la giornata che è appena trascorsa; può cambiare il corso degli eventi, e sfrutta questo dono straordinario per evitare la morte dei suoi “pazienti”.

Memento mori: ricordati che devi morire

Risulta evidente, ora, che in tutti questi esempi tratti dalla cultura pop la morte si profila come un ostacolo. In quanto tale, essa assume il ruolo dell’antagonista per eccellenza e, come in tutte le storie che si rispettino, il cattivo deve essere sconfitto. Inoltre, trattandosi di prodotti di fantasia, i metodi utilizzati per riuscire nell’impresa appaiono piuttosto inverosimili. Ma tutto ciò non ha particolare importanza: per portare avanti il ragionamento, mi impongo di credere che esistano davvero simili strumenti contro la morte, perlomeno nella sua forma accidentale. Tuttavia, per quanto si possa cercare di evitarla nel corso di una vita, essa, a un certo punto, sopraggiunge ineluttabile.

Cito un ultimo esempio pop, che rappresenta perfettamente la questione. Si tratta del racconto-chiave dell’ultimo capitolo della saga di Harry PotterI Doni della Morte, appunto. In esso, tre fratelli (r)aggirano la Morte per mezzo della magia. Essi peccano di superbia, convinti di essere riusciti a ingannarla, e non immaginano che si sia lasciata circuire di proposito. La Morte sa bene che nessuno di loro potrà sfuggirle a lungo, tanto che, uno dopo l’altro, li richiama a sé. Non risparmia nemmeno il fratello che, rispetto agli altri, aveva dimostrato più umiltà: in fondo sta nella sua stessa essenza, il non poter risparmiare nessuno.

Salvezza ulteriore: la vita dopo la morte

Giunti a questo punto, bisogna ammettere che, per quanto ci si sforzi di immaginare e architettare piani elusivi, una vera e propria via di fuga non esiste. Ma l’intelletto umano, unito al naturale istinto di sopravvivenza, è capace di meraviglie. La morte, è vero, ci coglierà inevitabilmente, ma noi saremo in grado di non smettere di vivere, se ci affideremo al più grande impianto salvifico mai costruito: la fede religiosa. Sapere che, una volta morti, vivremo ancora sotto forma di anima e in un posto decisamente migliore, o nuovamente qui, sulla Terra, reincarnati in un corpo diverso, elimina ogni preoccupazione per quel che riguarda la cessazione della vita. La questione non si pone più, davvero.

Ma, tornando al focus dell’indagine, quanto differiscono effettivamente l’idea del Paradiso, o quella della reincarnazione, dall’idea di una macchina in grado di prevedere i crimini e far sì che le potenziali vittime non vengano uccise? Certo, le prime hanno avuto qualche millennio per radicarsi a fondo nella cultura, mentre la seconda è soltanto un bello spunto per una serie TV. Dal punto di vista dell’approccio al concetto-morte, però, gli impianti religiosi e le nostre opere pop si trovano esattamente allo stesso livello. Sono tutte ascrivibili a un piano di riflessione in cui di morte in senso autentico non si parla. Fateci caso: in tutte le situazioni prese in considerazione, la morte è stata solo e soltanto evitata, aggirata, elusa, ingannata, scavalcata. Quasi senza accorgersene, si rinuncia a trattare l’argomento. «The words die like flies».

Fuggire non serve: Heidegger affronta la morte

Prima o dopo-la-morte che sia, finora non ho fatto altro che restare al-di-qua e affrontare la vita. Della morte in sé e per sé non posso parlare: nessuno è mai tornato per raccontare cosa ci sia effettivamente “al-di-là”, e tutto ciò che deriva dall’ambito culturale si risolve in fantasie e congetture ispirate al vivere.

Questa è, all’incirca, la difficoltà che si è posta di fronte a Martin Heidegger quando, nella stesura del suo Essere e tempo (1927), si è trovato a dover fare i conti con la morte.

Nella sua analisi dell’esistenza, il filosofo tedesco avrebbe senz’altro potuto tralasciare la questione della morte, ma ha scelto appositamente di non farlo per un “semplice” motivo: se l’esistere può assumere un’infinità di declinazioni e sfaccettature diverse, il non-esistere, la morte, costituisce l’unico elemento in grado di accomunarle tutte. Là, dove l’«Esserci» (il soggetto esistente) procede nella sua esistenza realizzando delle «possibilità» (le scelte che compie), il «non-Esserci-più» (la morte) si configura come «la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile». (M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2015, p. 301.) In una tale visione delle cose, risulta impossibile aggirare l’ostacolo, ed è questo a rendere il discorso di Heidegger intorno alla morte l’unico che si possa definire autentico.

Essere-per-la-morte: saper morire è saper vivere

Per concludere, è necessario un ultimo passaggio. Grazie alla filosofia heideggeriana, è stato possibile individuare l’approccio autentico al concetto-morte: è quello che la considera come parte integrante dell’esistenza e se ne occupa senza bisogno di escogitare fantasiose vie di fuga. Heidegger ci solleva da ulteriori ricerche e lo ammette chiaramente: «l’analisi della morte cade interamente di qua». (M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2005, p. 297.) A che scopo, dunque, tutta questa fatica?

In definitiva, credo che la questione fondamentale sia un’altra: ciò di cui disponiamo a tutti gli effetti è un’esistenza e ciò su cui dovremmo concentrarci non è tanto la sua fine, quanto il suo andamento. La fine è la più certa delle possibilità: non deve essere motivo di preoccupazione. Dovremmo curarci, invece, di come portare avanti al meglio l’esistenza prima che essa giunga al suo compimento. Molta della filosofia heideggeriana è incentrata sull’autenticità non solo dell’approccio alla morte, ma soprattutto di quello alla vita. In estrema sintesi, l’Esserci come essere-per-la-morte è il soggetto che pone consapevolmente la sua fine davanti a sé e non la considera come una minaccia, bensì come un telos, una meta, uno scopo.

Attenzione: non si tratta assolutamente di un “desiderio di morte”. Se l’esistenza è un insieme di possibilità, considerare quella della rinuncia a se stessi come punto d’arrivo darà maggior valore anche a tutte le altre. Le scelte più semplici e quotidiane verranno sempre e comunque realizzate, ma l’anticipazione di qualcosa di più grande permetterà al soggetto esistente di non rimanere bloccato su nessuna di esse in particolare. Sapersi approcciare alla propria morte garantisce uno slancio “autentico” nell’affrontare la vita:

Anticipandosi, l’Esserci si garantisce dal cadere dietro a se stesso e alle spalle del poter-essere già compreso, e dal divenire “troppo vecchio per le sue vittorie” (Nietzsche).

M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, p. 315.

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.