AKELARRE. Storia di stregoneria e femminismo

Reading Time: 7 minutes

Porte aperte è il tema del mese: cosa raccontare se non una storia pensata per schiudere la mente nei confronti delle minoranze culturali, sociali e – perché no? – linguistiche?

La Divulgatrice, spulciando il catalogo di Netflix, ha pescato un prodotto decisamente inusuale, confezionato apposta per aprire nuove prospettive nella mente degli spettatori.

Akelarre, film dal titolo esotico e oscuro, è ambientato nei Paesi Baschi del Sedicesimo Secolo, e diretto dal regista franco-argentino Pablo Agüero. La pellicola ha vinto lo scorso marzo cinque premi Goya su nove candidature. Le sue protagoniste sono donne, streghe e outsider; tuttavia la loro storia non assomiglia alla solita caccia alle streghe.

Titolo: la Congrega. Fonte: Rotten Tomatoes.

Il film, dal significato del titolo a qualche scorcio di trama

Akelarre è la parola basca che significa “sabba”, “pandemonio” ed è associata in particolare alle feste delle streghe. In italiano è stato, infatti, tradotto con Il sabba e in inglese Coven’s sisters. La scelta di avvicinare il titolo alla cultura del pubblico è quasi un peccato, nell’ottica del film: come si vedrà in seguito, l’uso della lingua basca ha un certo peso narrativo. Inoltre, un termine ignoto ai più avrebbe spinto lo spettatore interessato a indagarne il significato, anche solo con una semplice ricerca su Google. In questo modo sarebbe stato lui a doversi avvicinare alla cultura narrata nel film.
E poi, diciamolo, il suono stesso – a-ke-lar-re – risulta pagano e ancestrale come un antico incantesimo. È con questo titolo che ci si riferirà al film d’ora in avanti.

L’effetto dell’intreccio ideato da Agüero e i suoi collaboratori è molto simile a quello di una stregoneria. La magia di Akelarre si infittisce di scena in scena, guidando l’ignaro pubblico in un cupo vortice di danze stregate.

Il film si apre sui roghi accesi dall’Inquisitore Pierre de Rosteguy di Lancre, la cui missione è quella di viaggiare per l’Europa e stanare le creature del demonio. L’uomo è diretto a un pacifico paesino sulla costa basca, dove le donne portano avanti le loro mansioni artigianali in attesa dei loro uomini, pescatori partiti per mare.

Qui l’attenzione dell’Inquisitore e dei suoi lacchè è attirata da un gruppo di giovani filatrici, belle e vivaci in maniera sconveniente. Ovvio che siano streghe, e che vadano rinchiuse, interrogate e torturate.

Il principio di Akelarre è lontano dall’essere qualcosa di mai visto prima, il nocciolo della trama è simile a un altro film, l’omonima pellicola del 1984 di Pedro Olea.  Il tema della caccia alle streghe compare spesso sia nel dramma storico sia nel filone fantasy, cosa che lo rende, per certi versi, quasi pop. L’eccezionalità del sabba al quale ci invita Agüero risiede altrove, nel modo in cui mette in scena temi moderni, servendosi di scenografie antichissime, e nella cura con cui cesella i personaggi vitali per l’intreccio.

L’interrogatorio che dura giornate intere tra le mura di un carcere improvvisato, dove sono riuniti preti, boia e intellettuali ecclesiastici, ci dà l’occasione di conoscere a fondo streghe e inquisitori, colpevoli e innocenti, vecchi e giovani. Le loro caratteristiche principali si mescolano e si confondono, mostrando che nulla è determinato da loro.

L’intreccio di trama si snoda in un gioco pericoloso, una farsa messa in scena dalle ragazze per salvarsi la vita. La loro è una corsa contro il tempo e contro i pregiudizi che corrono più forte della ragione, una gara di intelletto che mantiene tesa l’atmosfera fino al finale, coraggioso e magico.

Lo sviluppo dei personaggi

Il punto di forza di Akelarre sono i suoi personaggi. La base di partenza è una figura storiche già nota e probabilmente ben definita nella mente dello spettatore: il prete di campagna, l’inquisitore alto e cupo, le ragazze povere ma allegre, i segretari ecclesiastici severi e vestiti di nero, le anziane donne di cura del villaggio, che sono costrette a servire il corteo di Pierre de Lancre.

Ognuna di queste grezze matrici viene cesellata da pochi, fini dettagli che li rendono vivi e riconoscibili come individui, diversi dagli stereotipi della narrazione tipica del periodo.

Un ottimo esempio è costituito dal modesto curato di campagna. La sua croce sono i costanti dubbi e le incertezze indotte dalla ragione, che finiscono per cozzare con la sua profonda fede. Non desidera opporsi alla parola di Dio, rappresentata dall’Inquisitore, ma allo stesso tempo è orripilato dai soprusi patiti dalle ragazze. I suoi timidi tentativi di renderle innocenti agli occhi di Pierre de Lancre modellano il suo carattere, elevandolo dallo stereotipo. Allo stesso modo, le poche battute pronunciate dalle donne di cura permettono di intuire la storia di una vita intera dietro all’immagine di “perpetua”.

Un lavoro simile viene svolto sui membri della congrega di filatrici. In questo caso non sempre riesce: anche se a ognuna viene attribuita una precisa abilità o caratteristica, alcune ragazze non riescono a staccarsi dallo sfondo, come succede invece per la vera protagonista. Si tratta della leader del gruppo, colei che sul serio affronta Pierre de Lancre guidando le amiche e compagne di sventura.

Ana – il cui volto è quello dell’attrice Amaia Aberasturi – è l’eroina del film, colei che fin da subito s’incarica della responsabilità di salvare sé stessa e le sue “sorelle di congrega”. Vivace e intelligente, Ana vede lo spirito delle sue compagne spezzato dalle torture fisiche e psicologiche alle quali vengono sottoposte: non resiste Maider, la burlona del gruppo, né Maria, la sorella di sangue di Ana. Questa consapevolezza le impedisce di farsi trascinare nello stesso gorgo di panico. Infatti, intuisce che qualcuno deve mantenersi sano di mente per poter fuggire tutte insieme. Gli occhi di Ana vedono le cose per come stanno, oltre le apparenze tessute da parole vane e da riti ancor più vuoti: si rende pienamente conto della lussuria ebbra di violenza che anima Pierre de Lancre, per questo cerca un modo per ritorcergliela contro.
È lei a ideare la messa in scena che rappresenta l’unica possibilità di salvezza: se l’Inquisitore cerca le streghe, allora le avrà, ma il rischio che corre è quello di venire irretito da un incantesimo. La sensualità di Ana funziona come una malia, la sua giovinezza non conosce la parola ingenuità, ogni sua azione è mirata a coinvolgere l’Inquisitore nel suo gioco di morte.

Anche Pierre de Lancre, impersonato da Alex Brendemühl, ci viene mostrato a tutto tondo. L’uomo sbagliato al quale concedere il potere è spesso quello dotato dell’ambizione necessaria per procurarselo. Pierre non è solo ambizioso, ma anche colto e violento. Crede davvero nella “parola di Dio”? Non sembra, ma sicuramente se ne approfitta per dare sfogo ai propri turpi istinti. La violenza dell’Inquisitore non agisce sul piano fisico; il suo è un abuso di potere che sfocia in un disgustoso approccio voyeuristico al sadismo sessuale dei soprusi inflitti alle ragazze. Gode nell’ordinare l’inflizione di dolore senza prendere mai in mano gli strumenti di tortura. Ama annichilire lo spirito di chi lo circonda: servi e preti di rango inferiore non scampano ai suoi abusi. Sembra non avere punti deboli –  protetto com’è dall’armatura dell’incarico divino – eppure la sua mancanza di un’etica reale e gli istinti psicopatici che manifesta nascono da un profondo bisogno. La lussuria di Pierre è difficile da soddisfare e quando Ana lo provoca fingendo di essere una strega e promettendo di mostrargli un vero sabba, l’Inquisitore non esita neanche per un secondo. Il male, profondamente radicato in lui, lo attira e lo trascina sempre più in basso, ben lontano dalla dignità della sua posizione sociale, fino a renderlo indistinguibile dal demonio che finge di voler combattere.

Il cuore di Akelarre

Il titolo italiano del film, da cercare su Netflix, è Il sabba. In questo articolo, si è deciso di riferirsi a lui chiamandolo Akelarre per ragioni ideologiche. La cultura basca è uno dei temi centrali del film, non in quanto tale, ma come rappresentate di tutte le culture minoritarie del mondo. Quelle che vengono schiacciate e derise perché incomprese dalle civiltà dominanti, per questo definite pagane, barbare, aberranti, un atteggiamento che non ha smesso di trovare applicazione nella nostra realtà, ormai ben lontana dal Medioevo.

Un aspetto importante del film, che racchiude il fulcro dell’essere basco, è la lingua. Le ragazze tra loro parlano euskera. Gli spettatori possono seguire i sottotitoli, al contrario dell’Inquisitore e del suo seguito che devono spesso ordinare alle ragazze di parlare “cristiano”. L’ignoto spaventa, una lingua diversa non può che nascondere turpitudini e nefandezze, perciò viene proibita e disapprovata. Tra tutti quegli intellettuali inviati dalla Chiesa non ce n’è uno che abbia il desiderio di conoscere e approcciarsi a un mondo nuovo.

Ecco perché il termine originale – akelarre– acquisisce importanza: può scatenare sensazioni e aprire gli occhi su un orizzonte diverso. Apprendere una lingua costituisce un modo nuovo di plasmare il mondo, anche se fosse solo una parola.

Il cuore del film contiene anche un femminismo sincero, spogliato del politically correct, mostrato nella sua bellezza originale che ha il volto di Ana e delle sue amiche. Il contesto storico aiuta molto ad avvicinarsi al senso della storia. La caccia alle streghe è ormai un tema piuttosto noto e popolare, per di più affonda le radici nella realtà storico-culturale alla base del nostro presente e ancora ci influenza in negativo. Come ampiamente argomentato dalla filosofa storica Silvia Federici nel saggio Calibano e la strega (pubblicato in Italia da Mimesis Edizioni), la caccia alle streghe è stato uno strumento di repressione utilizzato per soggiogare un’intera categoria di persone – le donne. Oggi come allora, una società totalitaria colpisce la figura femminile per assicurarsi di avere in pugno l’intera comunità. A livello politico, la donna è stata coscientemente repressa e marginalizzata per secoli per mano di governi e organizzazione religiose. Solo in tempi molto recenti, questo aspetto storico è diventato popolare nei media. Anche troppo popolare, tanto da venire spesso strumentalizzato e mal rappresentato guadagnandosi accuse di politically correct e “nazi-femminismo”.

Akelarre si tiene fuori da questo giro, affidandosi a una rappresentazione piuttosto realistica della caccia alle streghe, senza escludere totalmente gli uomini dal gruppo dei “buoni”. Lo scopo della farsa architettata da Ana è infatti principalmente quello di prendere tempo. Più giorni riesce a guadagnare, più è probabile che gli uomini del villaggio di pescatori tornino a casa per cacciare l’Inquisizione.

Non è irrealistico: una comunità medievale basca come quella di Ana è realmente esistita. Si trattava del villaggio di pescatori di St. Jean-de-Luz, dove la gente viveva isolata ed era poco restia a piegarsi alle influenze esterne. Qui l’Inquisitore realmente esistito, Pierre de Lancre, bruciò moltissime donne prima del ritorno degli uomini dalla battuta di pesca. Quando tornarono e si resero conto di quello che era successo, si armarono e liberarono un convoglio di streghe. La resistenza popolare, in questo caso, provocò l’arresto dei processi di stregoneria, come riporta sempre Silvia Federici. (S. Federici, Calibano e la strega, Milano, Mimesis Edizioni, 2020, p. 246.)

Uno dei motivi principali che rendeva le donne “streghe” agli occhi dell’Inquisizione, come anche Ana intuisce, era la mancanza di presenze maschili. Una donna non controllata diventa pericolosa agli occhi delle organizzazioni autoritarie maschiliste. Al contrario una mascolinità positiva può rappresentare un’opportunità di salvezza. Bisogna notare come l’ingegno della ragazza rimanga, nonostante questo, la sua prima risorsa.

Invito al sabba

Akelarre costituisce una piccola perla del catalogo Netflix: moderno senza strafare, riesce a sconvolgere e catturare l’attenzione senza usare trucchi particolari. A parte uno: la colonna sonora composta da canzoni basche. Il pezzo forte, intitolato Ez Dugu Nahi Beste Berorik, viene utilizzato come una canzone tradizionale che le ragazze intonano a gran voce nei momenti di spensieratezza iniziali, e che si sussurrano in prigione per darsi coraggio. Anche questa canzone ha una funzione narrativa da compiere. Viene usata come un incantesimo dalle ragazze, che ne alterano la melodia per renderla simile a un’invocazione, approfittando del fatto che gli ecclesiastici non possono capirne le parole e ammaliandoli. Gli strumenti e la cantilena intonata a voce sempre più alta della colonna sonora contribuiscono a tessere la malia che porta gli spettatori stessi a immergersi nelle tinte e nei suoni di una storia antica che ancora riesce a raccontare il presente.

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.