La vegetariana di Han Kang: la natura come evasione

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In questo mese dedicato a Madre Natura, la Critica d’arte ha deciso di dare uno sguardo alla letteratura coreana iniziando proprio da Han Kang, ad oggi, una delle autrici sudcoreane più apprezzate in Occidente.

Nata a Kwangju nel 1970, inizia a esplorare il mondo della poesia nel 1993 per poi dedicarsi alla narrativa. In Italia è stata pubblicata negli ultimi anni da Adelphi.
La vegetariana, pubblicato nel 2007 e vincitore, con la sua traduzione inglese, del premio letterario britannico Man Booker International Prize nel 2016, è da considerarsi uno sviluppo del racconto breve del 1997 I fiori della mia donna, contenuto in Convalescenza, edito da Adelphi nel 2019, nel quale la protagonista si trasforma in una pianta per mettere fine alla disperazione che pervade la sua vita.

La scrittura di Han Kang è enigmatica, sfuggente, tremendamente metaforica da essere quasi grottesca. La vegetariana, infatti, non fornisce una spiegazione della psicologia dei personaggi o un finale chiaro e comprensibile. Ed è proprio per questo che la storia acquista veridicità. Le violenze e i disturbi che da esse conseguono, presenti nel romanzo, non vengono mai chiamati per nome, ma la potenza e la crudezza con cui l’autrice dipinge le scene rendono la vicenda estremamente reale.

Sebbene il titolo possa trarci in inganno, in quest’opera si parla ben poco di vegetarianismo.
La violenza, che assume varie forme, ha un ruolo centrale all’interno della Vegetariana e rende inevitabile il declino, sia fisico che mentale, della protagonista, Yeong-hye.

Un romanzo in tre parti

Il romanzo è diviso in tre parti: “La vegetariana”, “La macchia mongolica” e “Fiamme verdi”.

In ciascuna parte interviene un narratore diverso; non è mai la protagonista a raccontare la sua vicenda in prima persona, ma le figure che fanno parte della sua vita. I vari punti di vista all’interno del romanzo permettono all’autrice di costruire una narrazione a tutto tondo, facendoci al tempo stesso incuriosire e dubitare dei personaggi narranti e di ciò che raccontano.

Nella prima parte, il marito di Yeong-hye, un uomo distaccato e noncurante, racconta, senza comprenderla, la scelta della moglie di diventare vegetariana e le reazioni della famiglia. La violenza nei confronti degli animali è ciò che rende “colpevole” Yeong-hye, che, a seguito di ricorrenti incubi, smette di mangiare carne. Questa decisione viene fortemente contestata da tutta la famiglia: Yeong-hye viene addirittura presa a schiaffi e forzata a mangiare un pezzo di carne dal padre, eroe della Guerra del Vietnam e uomo da sempre violento. Questo episodio segna il punto di non ritorno nella vita della protagonista e dà il via ad atti di autolesionismo e a un desiderio di morte sempre più ricorrente.

Un grumo formato da urla e gemiti aggrovigliati, intrecciati fra loro uno strato dopo l’altro. È per la carne. Ho mangiato troppa carne. Le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì. Il sangue e la carne, tutti quei corpi macellati sono sparpagliati in ogni angolo del mio organismo, e anche se i resti fisici sono stati espulsi, quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere.
Vorrei tanto gridare, una volta sola, almeno una. Vorrei lanciarmi da quella finestra nera come la pece. Forse questo scaccerebbe finalmente questa massa dal mio corpo. Sì, forse potrebbe funzionare.

Han Kang, La vegetariana, Milano, Adelphi, 2016, p. 54.

Nella “Macchia mongolica” a parlare è il cognato di Yeong-hye, un artista dalla discutibile sanità mentale, ossessionato da lei a causa della sua macchia mongolica. Qui vediamo una Yeong-hye sempre più in balia delle azioni di chi la circonda. Non subisce solo violenza fisica e psicologica, ma anche sessuale. Tuttavia, lei non reagisce, rimane inerme, ha già rinunciato alla vita. La riflessione sulla morte torna ancora più forte e riecheggia anche nelle parole del cognato. 

Ricordava di essersi augurato che la cognata sopravvivesse, ma allo stesso tempo si era chiesto dubbioso cosa potesse significare per lei quella “sopravvivenza”. Il momento in cui aveva cercato di togliersi la vita era stato un punto di svolta. Adesso, nessuno poteva fare niente per aiutarla.

ivi, p. 72.

“Fiamme verdi” è il disperato tentativo di prendersi cura di Yeong-hye da parte della sorella, In-hye, la quale finirà per cadere nello stesso baratro in cui sta già sprofondando la protagonista. È proprio In-hye ad accorgersi, alla fine, che proprio tutta quella sofferenza e tutto quel dolore, provocati dai traumi del passato e del presente, hanno portato la sorella a sviluppare un’inevitabile malattia mentale che le sarà fatale: «Soltanto Yeong-hye, che era docile e ingenua, non aveva saputo evitare la collera del padre né opporvi alcuna resistenza. Aveva semplicemente assorbito tutta la sofferenza dentro di sé, fin nel midollo». (ivi, p. 154.)

Alienazione 

L’alienazione e la metamorfosi come vie di fuga dalla sofferenza sono temi ricorrenti nelle opere di Han Kang. Le sue protagoniste, infatti, sono spesso donne che tentano di evadere in loro stesse.

Han Kang vuole raccontare l’anima attraverso il corpo, perché soma e psiche non sono mai distaccati. Il corpo è espressione ed estensione della mente. Il deperire del corpo è conseguenza della malattia della mente e ne palesa il disagio. L’autodistruzione appare, quindi, l’unica via di fuga possibile dal dolore: «Sembrava che si stesse ritirando da se stessa, diventando distante da sé tanto quanto lo era dalla sorella. Una faccia disperata dietro una maschera di compostezza». (ivi, p. 129.)

Yeong-hye smette completamente di mangiare, fermamente convinta di stare per trasformarsi in un albero e di aver bisogno di lì in poi solo di sole e acqua: «Devo dare acqua al mio corpo. Non ho bisogno di questo genere di cibo, sorella. Ho bisogno di acqua». (ivi, p. 146.)

All’interno dell’ospedale psichiatrico in cui si trova nell’ultima parte del libro, passa le sue giornate al sole a fare la verticale. È convinta che le sue mani siano radici, vuole affondare nella terra all’infinito. Sul suo corpo crescono foglie rigogliose e dalle sue gambe sbocciano fiori.

Yeong-hye non può sfuggire alla sua condizione e ai suoi tormenti, quindi trova la soluzione più rapida: evadere in se stessa. Se non è possibile esercitare un controllo sulla propria vita, l’unica cosa che si può fare è arrendersi, ritirarsi, fare in modo che il mondo esterno non possa più fare male.

La scelta di trasformarsi in albero è forte e provocatoria. I vegetali non hanno pensieri, non hanno sentimenti. La natura è accogliente, non perpetua violenza. La distinzione tra il mondo animale e il mondo vegetale si fa, allora, ancora più evidente. Nel mondo animale la violenza si trova ovunque: dal basilare istinto di nutrirsi alle brutalità di cui è capace l’uomo. La natura, invece, è innocua e dona pace.

Una critica alla società patriarcale coreana

All’interno del libro è presente anche una velata critica alla società patriarcale coreana, altra tematica molto cara ad Han Kang: «Non c’è niente di male nello starsene zitti; in fin dei conti, non è questo che ci si aspetta tradizionalmente dalle donne, che siano modeste e riservate?». (ivi p. 29.)

In Corea del Sud, questi temi sono stati trattati dalle scrittrici femminili degli anni Settanta e Ottanta, come Park Wan-seo, Park Kyongni e O Jung-hee – delle quali, purtroppo, non vi sono ancora opere tradotte in italiano. Queste autrici ritraggono donne alienate dalla vita familiare e dalla società. La routine della quotidianità è violenta, opprime gli autentici desideri che si nascondono sotto un velo di apparente tranquillità. I paletti imposti da una società fortemente patriarcale costruiscono una gabbia dalla quale la donna non può veramente scappare.

Sebbene negli ultimi anni la Corea del Sud abbia fatto grandi passi avanti in questo ambito, i rapporti che la protagonista instaura con le figure maschili all’interno della Vegetariana esemplificano la condizione della donna in una società ancora fin troppo fallocentrica.
Il padre della protagonista, dal carattere estremamente violento e ligio alla rigida disciplina militare, non tollera che la figlia abbia pensieri discordanti dai suoi o che compia scelte in autonomia.
Yeong-hye e suo marito sono persone ordinarie e prive di ambizioni forti. Il marito reputa Yeong-hye una donna insignificante e anonima, che decide di sposare per la sua personalità docile e passiva. Non gli sarà difficile, quindi, considerarla folle e decidere di abbandonarla di punto in bianco.
Il cognato, sebbene in un primo momento sembri voler rinnegare gli atteggiamenti del suocero e del marito di Yeong-hye, la considererà ben presto un oggetto sessuale sul quale riversare le sue frustrazioni e aspirazioni.

Violenza e umanità

Tuttavia, La vegetariana non può essere ridotta solo a questo. Tenendo sempre presente il substrato culturale in cui sono immersi i protagonisti e le vicende, Han Kang sviscera a più riprese il tema della violenza opposto a quello dell’umanità.

Yeong-hye tenta, inizialmente, di eliminare la violenza dalla sua vita diventando vegetariana, per poi, alla fine, trasformarsi in un albero. Essere totalmente innocenti è possibile? Come agire per non perpetrare la violenza in alcun modo?

Assistiamo poi al disperato e futile tentativo di In-hye di aiutare la sorella, di comprenderla e starle accanto. E qui si apre la riflessione sull’impossibilità di capire veramente gli altri: «Nessuno mi capisce… I medici, gli infermieri sono tutti uguali… Non ci provano nemmeno, a capire… Mi costringono solo a prendere medicine, e mi infilzano con gli aghi». (ivi, p. 153.)
La riflessione sulla morte, presente dalle prime pagine, è determinante per Yeong-hye e la spinge a rinunciare totalmente alla vita. Non ha più nulla da perdere, morire non sembra così drammatico.

Han Kang, infine, ci presenta il corpo come rifugio ed estremo metodo di autodeterminazione. Il corpo di Yeong-hye, con le viscere atrofizzate e talmente rachitico da sembrare quasi inanimato, ne è l’esemplificazione. Il suo corpo, steso nel letto dell’ospedale psichiatrico, urla sofferenza. È impossibile ignorare la sua condizione, il suo corpo è eloquente più di quanto lei sia mai stata in vita sua.
La vegetariana, quindi, non è solo una critica al patriarcato; indaga tematiche e discussioni che, probabilmente, non avranno mai una risposta. Han Kang ci fornisce innumerevoli spunti, ci fa riflettere, ci induce a discutere di argomenti considerati ancora tabù. La profondità della sua scrittura rende le sue opere preziose ed essenziali per chiunque voglia avvicinarsi alla letteratura coreana.