Gelo: l’ironica lotta tra l’uomo afflitto e la natura ostile

Gelo: l’ironica lotta tra l’uomo afflitto e la natura ostile

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Immaginate un paesaggio alpino d’inverno: bianchi manti nevosi, maestose montagne, aria pura e cieli limpidi. Godetevi la bellezza per un attimo e poi cominciate a trasformarla: scurite il cielo finché non diventa plumbeo; rendete l’aria umida e pesante; posizionate pareti rocciose tutto intorno a voi; della neve conservate solo il freddo. Ecco, ora avete di fronte Weng, il paesino di montagna in cui Thomas Bernhard ha ambientato Gelo (1963).

Nel mese dedicato a Madre Natura, la Divulgatrice ha deciso di non esaltare soltanto ciò che essa rappresenta di buono, ma di occuparsi anche del suo lato oscuro. Questo non va confuso con il suo aspetto “terribile”, quello che spesso le permette di avere la meglio sull’uomo, perciò non aspettatevi catastrofi o disastri ambientali. La natura, nel romanzo di Bernhard, è piuttosto immota e, per questo, decisamente più subdola: consente la vita, ma non la favorisce. Come quasi tutto, in Gelo, anch’essa è ostile, decadente e brutta.

Vortici bernhardiani: il difficile approccio a Gelo

Gelo non è un romanzo sulla natura e, per alcuni aspetti, non è nemmeno un romanzo. A pensarci bene, però, risulta impossibile sia definirlo in altro modo sia ignorare la presenza massiccia dell’elemento naturale al suo interno. È la peculiarità di Thomas Bernhard quella di riuscire a confondere, trasformando le cose semplici in vortici senza fine apparente. L’unica via d’uscita consiste nel lasciarsi trascinare fino in fondo, per poi essere risospinti in superficie.

Pur essendo il primo scritto di Bernhard, Gelo non risparmia al lettore che vi si approccia impreparato questo processo di “annegamento”. L’opera possiede le caratteristiche del romanzo – una trama, dei personaggi, un’ambientazione –, ma queste fungono da pretesto per sviluppare concetti e riflessioni più profonde. Destreggiarsi tra di esse può essere complicato: si tratta di un romanzo che va letto con la matita in mano, come se si trattasse di un libro di studio.

Quel che può essere d’aiuto è avere ben chiaro che cosa, in esso, si stia ricercando. La Divulgatrice, ad esempio, si è concentrata sul paesaggio e la natura che fanno da sfondo alla vicenda. La lettura mirata ha agito come da “salvagente”, permettendo alla nostra studiosa di riemergere, alla fine del libro, e di poter scrivere di ciò che ha colto nel mezzo del vortice. Già due volte aveva tentato di approcciarsi a Gelo come a un romanzo qualsiasi: dopo un centinaio di pagine, l’annegamento era effettivamente sopraggiunto.

Il romanzo: la trama e i personaggi 

Essendo pretestuosa, dunque, la trama di Gelo è piuttosto semplice. Bernhard racconta del soggiorno di un praticante di medicina presso il paese di Weng – sì, quel posto tetro e poco accogliente che vi siete immaginati all’inizio. Il giovane viene incaricato da un collega anziano di osservare dal punto di vista clinico i comportamenti di suo fratello, il pittore Strauch, ritiratosi volontariamente a Weng per quella che crede essere la fine dei suoi giorni.

L’aspirante medico riesce facilmente a instaurare un rapporto con il suo inconsapevole paziente, e sono le lunghe chiacchierate tra i due protagonisti a costituire gran parte dell’opera. Spesso intervengono anche dei personaggi minori, identificati tramite la professione che svolgono: la moglie dell’oste, lo scuoiatore, l’ingegnere, il gendarme. Grazie alla maestria di Bernhard nel rendere plausibile l’assurdo, queste figure sono al contempo fondamentali e totalmente marginali. Il vero protagonista, il più loquace tra tutti, è il pittore Strauch, che in lunghi monologhi condivide con il suo interlocutore (e con il lettore) pensieri e sensazioni di ogni genere.

Il pensiero e l’ambientazione: un legame indissolubile

Questo paesaggio ogni volta che lo guardo diventa più brutto. È brutto e minaccioso e pieno di particelle di cattivi ricordi, un paesaggio che getta lo scompiglio tra gli uomini. Con le sue tenebre, i suoi branchi di animali selvatici, con la sua concentrazione di sciagure laggiù nella valle […].
Ovunque l’insidia di sentieri infossati, crepacci, boscaglia, intrico di cespugli, tronchi d’albero squarciati. Tutti atteggiamenti ostili. E spietati.

T. Bernhard, Gelo, Torino, Einaudi, 2011, p. 212-213.

Questo è il genere di riflessioni che Strauch propone a chi lo sta a sentire nel corso dell’intero romanzo. Fra le trecento pagine di Gelo, è impossibile trovare il minimo accenno a qualcosa di ameno, di leggero o piacevole. Per il pittore, tutto è sempre infinitamente brutto: la vita, le persone, la natura che lo circonda. Ci si domanda, allora, se sia l’ostilità del paesaggio ad abbruttire la sua visione delle cose o se sia lui, viceversa, a essere talmente disgustato dall’esistenza da non riuscire più a cogliere altro che il brutto.

Dall’impressione che ne ha il giovane dottore giungendovi in treno, si evince che Weng è oggettivamente un luogo orribile: «Una regione come questa […] dev’essere come un pugno in faccia in ogni istante» (ivi, p. 9). E, in effetti, una delle prime domande che si pone l’aspirante medico è che cosa sia venuto a fare Strauch in un posto simile.

La risposta arriva dal pittore stesso quando il giovane, non potendo rivelare il vero motivo del suo soggiorno, dice di essere uno studente di legge, salito fin lassù per rimettersi in salute: «Un’idea così balorda poteva venire solo a un cretino. Oppure a un aspirante suicida» (ivi, p. 11).

Un ironico suicidio: Strauch e la natura

Io soffro semplicemente del fatto di essere al di sopra della media. Lei deve sapere. Soffro delle riserve che la natura ha nei miei confronti, dei diritti a me estranei che esercita su di me. Io sono quello che ha sempre la peggio.

ivi, p. 288.

La sofferenza del pittore sembra essere congenita. È un lato del suo essere che la natura gli ha imposto nel momento in cui è stato messo al mondo. Strauch non è a Weng per mancanza di lucidità; al contrario, proprio in quel luogo, egli intende compiere la crudele volontà della natura: Strauch è un aspirante suicida. In perfetto stile bernhardiano, però, ciò che l’artista sembra ricercare non è tanto l’annientamento in sé, ma qualcosa che lo rappresenti: «Aveva sempre cercato di stabilire un contatto col proprio ambiente, con ciò che «ispira disgusto fino in fondo». Il suo massimo sforzo sin dall’inizio era sempre stato quello di restar vicino a tutto ciò che odiava […].» (ivi, p. 286.)

Weng e i suoi paesaggi orribili, «questa valle mortale per ogni natura» (ivi, p. 58), costituiscono, dunque, l’habitat perfetto per il pittore e il suo tragico scopo. Eppure, si tratta pur sempre di uno scopo, e averne uno permette di continuare a vivere. È questa l’ironia di Gelo, di Strauch, di Weng e delle loro rispettive nature: esse si contraddicono nel loro stesso essere; ricercano e rappresentano la morte, ma, così facendo, non fanno altro che caricarsi di vita.

L’ultima beffa: il nemico perfetto

Gelo non è un romanzo sulla natura, è un romanzo sull’uomo; è uno sguardo intenso e prolungato nell’abisso della sua sofferenza. La natura è presente in larga parte soltanto in qualità di grande antagonista. Se un nemico capace di annientarlo è proprio ciò di cui l’uomo ha bisogno, però, ecco che si ricade nell’ironia bernhardiana.

Weng è un paese situato molto in alto, eppure è come se si trovasse sul fondo di una gola. È impossibile valicare quelle pareti di roccia […]. È un paesaggio che per via della sua bruttezza estrema ha più carattere dei paesaggi belli che non hanno carattere.

ivi, p. 8.

Non è la visione malata del pittore a rendere ostile la natura, ma non è nemmeno la spietatezza del paesaggio ad affliggere lui. Strauch e Weng si appartengono in quanto capaci di offrirsi reciprocamente ciò di cui hanno bisogno: la decadenza e l’orrore. L’uno si ammala e soffre, l’altra trionfa in bruttezza. In questo equilibrio perfetto, entrambi trovano il modo di portare avanti la propria esistenza senza che ci siano vincitori né vinti, ma soltanto avversari degni di questo nome.

Illustrazione a cura di Noemi D’Atri.