La guardia, il poeta e l’investigatore di Jung-myung Lee: il potere delle parole e dell’immaginazione

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Tra un aperitivo in riva al mare e un weekend fuori porta, la Critica d’arte si sta facendo trasportare – forse un po’ troppo – dal brio estivo. Perché, quindi, non farla tornare con i piedi per terra? Ebbene sì, per il mese di luglio non si è scelta di certo una lettura leggera da ombrellone. Ha deciso, infatti, di tuffarsi ancora una volta a capofitto nella letteratura coreana. 

La scelta è ricaduta su La guardia, il poeta e l’investigatore di Jung-myung Lee, pubblicato in Italia nel 2016 da Sellerio, nominato per il britannico Independent Foreign Fiction Prize e finalista del premio Bancarella nel 2017.

Jung-myung Lee è famoso per i suoi romanzi storici, molti dei quali sono stati trasposti in miniserie televisive, come Deep rooted tree del 2006 e Painter of the wind del 2007.

La guardia e l’investigatore

Sugiyama Dozan, addetto alla censura e spietata guardia carceraria, è stato assassinato. La giovane guardia Watanabe Yuichi viene incaricata di trovare il colpevole e di prendere il posto di Sugiyama nell’ufficio della censura. 

Così si apre il romanzo: nessuno spazio per i convenevoli. Jung-myung Lee ci presenta la cruda realtà, senza filtri. E sebbene sia classificata come giallo, quest’opera regala al lettore ampio spazio per la riflessione e per il ragionamento. 

È il 1944, la Corea è sotto l’occupazione giapponese e la Seconda guerra mondiale sta per avviarsi alla sua conclusione. Nella prigione giapponese di Fukuoka nessun prigioniero ha vita facile; tuttavia, sono proprio i detenuti coreani a essere i più disprezzati e a diventare oggetti di estreme violenze. I coreani sono infatti obbligati a rinunciare al proprio nome in cambio di uno nuovo di origine giapponese e viene proibito loro anche l’uso della propria lingua madre. 

I prigionieri coreani non hanno solo perso la libertà, ma anche la loro patria, la loro lingua e il loro nome

«Un nome è il simbolo del proprio essere. Non rappresenta solo un viso e un corpo, ma anche i sogni, i ricordi, il passato, il presente e il futuro di una data persona. Proprio come una parola può contenere in sé diversi sentimenti o una frase può avere vari significati.»
(Jung-myung Lee, La guardia, il poeta e l’investigatore, Palermo, Sellerio editore, 2016, p. 161.) 

Come si può leggere nel capitolo 14: «La lingua, allora, non era semplicemente uno strumento che serviva a trasmettere significati. Era parte integrante di ogni essere umano e conteneva in sé la storia di un paese». (ivi, p. 193.)

Il disprezzo provato nei confronti dei detenuti coreani porterà le personalità giapponesi al comando a commettere sevizie inaudite e a sottoporli con l’inganno a esperimenti medici pressoché fallimentari. Le parole del professor Morioka, membro dell’équipe medica dell’Università Imperiale del Kyūshū, esemplifica quest’odio profondamente radicato. Le sue parole sono sprezzanti, fanno inorridire chiunque abbia in sé anche solo un piccolo briciolo di umanità. 

«I coreani sono il male che ha messo radici all’interno della nostra società. Sono un tumore canceroso che si sta diffondendo nel nostro corpo e che col tempo si prenderà la nostra vita. Lei sa qual è il trattamento per il cancro? Lo si recide, lo si rimuove chirurgicamente, eppure le cellule tumorali continuano a svilupparsi, danneggiano le cellule sane fino a distruggere l’intero organismo. Chi dobbiamo salvare? Dovremmo lasciare morire numerosi giapponesi per salvare dei soggetti cancerosi?»
(ivi, p. 336.)

Il nuovo addetto alla censura, Watanabe Yuichi, si dimostra, invece, meno brutale del suo predecessore e, durante gli interrogatori ai sospettati dell’uccisione di Sugiyama, scopriamo il suo passato: l’esser figlio di una libraia e il suo immenso amore per la letteratura. È allo stesso tempo esilarante e straziante che lui si trovi incaricato di bruciare testi e corrispondenza considerati sovversivi. La sua sofferenza è palpabile: «Avrei dovuto dare fuoco a lettere e libri censurati. Il solo pensiero mi sconvolse e mi sentii come Abramo che aveva ricevuto l’ordine di uccidere il proprio figlio». (ivi, p. 49.)

Le due guardie non sembrerebbero aver nulla in comune. Eppure è proprio quell’amore per la letteratura e per la poesia che lega persone così diverse tra loro, come Sugiyama Dozan e Watanabe Yuichi. Ebbene sì, pagina dopo pagina ci rendiamo conto che nemmeno lo spietato Sugiyama è così come appare. 

«Sugiyama Dozan era un uomo sensibile vittima del proprio tempo. A ucciderlo era stata l’insensatezza di quegli anni assetati di sangue, anni in cui si istigava all’odio e si dava la morte. Sugiyama, imprigionato nella sua divisa, era morto nel suo solitario inferno.»
(ivi, p. 105.)

Nonostante siano agli antipodi, cosa hanno in comune, quindi, le due guardie e i detenuti coreani? Oltre all’amore per l’arte delle parole, li unisce la capacità di immaginare, di sognare un’alternativa migliore a quella vita. Lasciare che la mente vaghi oltre le celle della prigione e l’ufficio della censura. E proprio le parole sono gli strumenti attraverso i quali è possibile riuscire a dar libero sfogo ai desideri della mente. 

Il poeta

Tra i prigionieri coreani spicca la figura di Yun Dong-ju, che rappresenta un vero barlume di speranza per i prigionieri e per gli stessi Sugiyama Dozan e Watanabe Yuichi. 

Yun Dong-ju è stato un poeta e dissidente coreano realmente esistito, che morì prigioniero nella prigione di Fukuoka. In La guardia, il poeta e l’investigatore vengono riportate diverse sue opere, che possiamo trovare nella raccolta postuma del 1948 Cielo, vento, stelle e poesie. Con le sue poesie riuscì a infondere speranza e coraggio anche in quella cupa realtà sociale e storica in cui si trovava. 

Le parole hanno il potere di cambiarci, di farci riflettere e di darci speranza anche nei momenti più bui. Hanno il potere di rivelare la vera essenza delle persone – il caso di Sugiyama ne è un esempio calzante – e permettono di comprendere e comunicare ciò che altrimenti sarebbe incomprensibile. 

Anche nel momento in cui la libertà e l’umanità vengono meno, le parole e la letteratura consentono ai prigionieri di immaginare un futuro migliore, un’alternativa alla situazione presente che li spinga ad andare avanti. La guardia, il poeta e l’investigatore ci insegna che, nonostante i tentativi di censura, la forza delle parole e dell’immaginazione non morirà mai. La letteratura vivrà sempre nelle persone che ne hanno fatto tesoro: «E anche dopo che quei libri non esistevano più, le frasi contenute in essi continuavano a vivere». (ivi, p. 41.)

Yun Dong-ju, durante i numerosi colloqui nell’ufficio della censura con Sugiyama Dozan prima e Watanabe Yuichi dopo, si troverà a stringere con loro un rapporto di amicizia e rispetto. Sarà anche per le due guardie un segno di speranza, il mezzo attraverso il quale riusciranno a comprendere che immaginare delle circostanze migliori è possibile e indispensabile per non perdere se stessi in quei tempi bui. 

«Conoscevo bene il potere delle parole, il loro significato, quello che esprimono e quello che possono celare, e il modo in cui mescolandosi o contrapponendosi le parole creano una suggestione, danno corpo a pensieri e sentimenti. Mi vennero alla mente i personaggi dei romanzi che avevo letto molti anni prima. E il cortile tetro della prigione divenne la Siberia sotto una coltre di neve della Resurrezione di Tolstoj.»
(ivi, p. 33.)

Tramite la letteratura, quindi, l’immaginazione consola l’anima, unisce e conforta. Yun Dong-ju porta un messaggio di speranza: anche dopo la morte le parole continueranno a esistere e immaginare questo può rendere il tempo presente un po’ meno terribile. Possono sottrarci la libertà, perfino il nome, ma le nostre parole risuoneranno anche dopo la nostra dipartita. 

Nella prigione di Fukuoka si può essere condannati per amore della letteratura e, al tempo stesso, grazie a essa si può trovare la chiave per sopravvivere.