Quello che Dark ci ha veramente insegnato

Quello che Dark ci ha veramente insegnato

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Ok, ok. Prima di iniziare, mi è stato giustamente fatto notare che devo avvertirvi del fatto che di seguito sono contenuti dei clamorosi spoiler di Dark. Anche se, mi tocca sottolineare che: 
1) se non avete ancora finito di vederlo e cliccate su una pagina web che ne parla sbagliate voi e non io;
2) a quel punto non meritereste la mia attenzione nell’evitarvi spoiler;
3) non leggendo l’articolo vi perdereste un nuovo pippone esistenziale niente male. 

Ne vale davvero la pena?
Buona lettura!

Mi è capitato più volte, nel corso della mia vita, tra i mille rimpianti che gelosamente custodisco nella parte più recondita della mia persona, di chiedermi se tutto quello che io avessi fatto non fosse stato altro che un modo per arrivare proprio lì, in quell’esatto istante che in quel preciso momento mi ritrovavo mestamente a contemplare. 

Magari davanti a un drink, insieme alla compagnia sbagliata e con in sottofondo la giusta nota di malinconia.

Mi rendo conto che possa suonare alquanto bizzarro, ma pensateci bene: prendete un evento importante della vostra vita che avete già vissuto, che vi sia piaciuto o meno, magari un momento che avete aspettato a lungo. E pensate al fatto che se non aveste compiuto quella sequenza di azioni in quel preciso ordine, quello stesso evento, per il quale avevate organizzato scrupolosamente ogni dettaglio – o magari no, un grande classico di noi impreparati agli appuntamenti più importanti – non sarebbe avvenuto così come è stato poiché tutta la catena di cause ed effetti susseguitisi fin lì non ha avuto altro risultato se non quello di condurvi esattamente a quel singolo istante. 

Il nostro libero arbitrio, o quantomeno la più o meno fallace idea di poterci autodefinire, è in costante conflitto con il concetto di destino. L’incomprensibile concatenarsi degli eventi, liberamente scelti o tragicamente imposti a seconda della nostra prospettiva, non può però sottrarsi all’unica e incontrovertibile verità della nostra esistenza, la necessità dell’avvenire. 

Ciò che è accaduto, è accaduto. Ed è inevitabile che sia così. E lo è stato perché quella specifica causa ha innescato quel preciso effetto e così via, in un ciclo continuo che vi ha condotto proprio lì, in quell’esatto istante che in quel preciso momento vi siete mestamente ritrovati a contemplare. 

Magari, sarà capitato anche a voi, davanti a un drink, insieme alla compagnia sbagliata e con in sottofondo la giusta nota di malinconia.

Angosciante, vero? E pensare che siamo solo all’inizio. 

So come vi sentite, perché in fondo non siamo tanto diversi gli uni dagli altri, anche se a volte la mediocrità delle nostre esistenze, tiranna e ingannevole, ci spinge a illuderci che non sia così. 

L’assillante determinismo della totalità, la realizzazione della concatenazione inevitabile tra un evento e l’altro genera e alimenta il bisogno più recondito e primordiale che l’essere umano in difficoltà sviluppi a una velocità direttamente proporzionale al suo dilagante senso di panico: una via di fuga. Il solo pensiero che quel risultato disastroso davanti ai nostri occhi si sarebbe potuto evitare se non avessimo preso quella apparentemente futile scelta è una zavorra talmente pesante per la nostra anima che la reazione più istintiva e immediata non può che essere quella della non accettazione. 

La fuga non assume infatti soltanto le forme più immanenti del materiale, ma anche e soprattutto quelle più subdole del piano morale: la deresponsabilizzazione delle nostre azioni, la ricostruzione alternativa della realtà in una versione per noi accettabile è un modo per elaborare il lutto, per rendere superabile un qualcosa che, altrimenti, sarebbe per noi un continuo mostro con cui confrontarci. E perdere. 

Ma cosa accadrebbe se avessimo per davvero il potere di cambiare le cose? Se solo avessimo, per un istante, la possibilità di impedire che ciò che è già accaduto non accada di nuovo. 

La risposta è semplice, almeno in Dark: due universi

L’originalità di Dark: tempo, spazio e amore

D’accordo, anche stavolta l’ho presa veramente alla larga. Ma il fatto è che non credevo di poter arrivare a un tale livello di coinvolgimento per una serie tv di casa tedesca. E invece, Baran bo Odar, che tu sia benedetto per avermi confermato che gli stereotipi sono sempre veri, ma in qualche caso anche io posso sbagliarmi.

Il tempo è una gabbia, una prigione dalla quale è impossibile evadere. È questo il concetto che Dark estremizza fino all’inverosimile, scioccando il proprio pubblico al termine di tre stagioni all’insegna dell’incontrovertibile verità che le storie più belle, alla fine, sono anche quelle più semplici. Dark non è nient’altro che una storia d’amore, il tentativo disperato di tornare indietro nel tempo per impedire che un figlio, la sua amata e il loro bambino scompaiano tragicamente in un incidente d’auto. Ma è anche una storia di egoismo, in cui l’incapacità di accettare ciò che è successo porta un uomo a sfidare le leggi del tempo e dello spazio con conseguenze terribili. Ma del resto, chi siamo noi per dire che l’amore non sia la più nobile delle forme di egoismo e per negare che è in nome dell’amore, nella storia, che le più grandi conquiste e tragedie siano state ottenute. 

L’originalità di Dark, senza alcuna ombra di dubbio, è nell’idea alla base del ciclo. Sebbene sia proprio spezzando le catene del tempo e del suo eterno ritorno che la storia conosca una sua conclusione, per quasi tre intere stagioni i personaggi sono condannati a rivivere in eterno ciò che hanno sempre vissuto. Provare a impedire che un dato evento si verifichi non è nient’altro che il modo in cui esattamente questo si è verificato e continuerà a farlo, in un ciclo senza fine e, per quanto sia assurdo pensarlo, senza inizio. È il paradosso di Bootstrap, uno degli emblemi probabilmente più identificativi della logica della serie: Charlotte è madre e al tempo stesso figlia di Elizabeth, Tannhaus non avrebbe mai potuto costruire la macchina del tempo e pubblicare il proprio libro se non fosse stata Claudia a presentargli anni prima i blueprint del progetto e una copia sbiadita di quello stesso libro che Helge regalerà a una lei più giovane in un momento futuro. Piuttosto confusionario, lo so, ma terribilmente affascinante.

Il tempo è una condanna, le cose non possono non accadere come sono sempre accadute. Non è destino che Adam muoia per mano di Noah, al punto che anche una pistola perfettamente carica e funzionante, puntata contro la persona sbagliata nel momento sbagliato, si inceppa, per riprendere a funzionare pochi secondi dopo, stavolta con la canna dell’arma rivolta verso chi prima aveva pensato di poter cambiare il suo fato. 

Il viaggio nel tempo come fonte di salvezza

Quello che forse ho più apprezzato in Dark è la critica, o meglio, la perfetta fotografia dell’incapacità del genere umano di saper accettare e convivere con i propri fardelli. È uno degli aspetti che sin dalle prime puntate Peter sottolinea: «Signore, donami la serenità di accettare ciò che non posso cambiare, la forza di cambiare ciò che posso e la saggezza per capire la differenza». Sebbene l’idea della predestinazione sia tipicamente calvinista, la capacità di accettare ciò che accade è un concetto piuttosto trasversale nel cristianesimo. Non a caso, nell’Evaverse, Peter veste i panni di un pastore protestante. Adam ed Eva interpretano in maniera differente il concetto di ciclo: Adam intende sfidare Dio da pari peccando di presunzione per finire vittima di se stesso prima che Claudia gli suggerisca una via d’uscita. Eva sceglie invece di non rinnegare il proprio peccato originale e affrontare la logica del tempo con l’amore di una madre. Quello del legame indissolubile tra una madre e i propri figli è del resto una costante che sembra farsi beffe della stessa logica incatenante del tempo e del ciclo: Claudia riesce a trovare l’origine del nodo dei due universi per consentire a Regina di non morire di cancro, arrivando a uccidere l’altra se stessa per farlo. E la copertina, inevitabilmente, è a lei riservata. 

Ma Dark resterà anche la disperata ricerca di Mikkel di una Katharina incapace di arrendersi, se non al suo destino e alla voglia di liberazione della sua stessa madre. Un contraltare quasi emotivo alla ricerca disperata di maternità di Ines Kanhwald, àncora e al tempo stesso pastoia del piccolo Nielsen, vittima indifesa di sindrome di Stoccolma che di tutto avrebbe avuto bisogno fuorché dell’amore oppressivo ma psicologicamente accettabile e successivamente accettato di una seconda madre. Così come Dark resterà la redenzione di Hannah, dal colpevole distacco di Jonas all’amore protettivo per Silja, e ancor più simbolicamente la forza di Charlotte e sua figlia Elizabeth, complici del delitto materno più atroce, privare la prima di una famiglia e la seconda del senso di completezza restituito dal crescere un figlio.

Il fascino dell’imperfezione 

Se cercate di alleviare al meglio delle vostre possibilità le pene di questa miserabile vita che ci ritroviamo a condurre, ricorderete sicuramente che Trinity definiva il déjà vu come un’imperfezione di Matrix. «Capita quando cambiano qualcosa», spiegava a Neo. Jonas e Martha più volte definiscono la loro relazione come un glitch, come se la loro connessione fosse sbagliata, è il caso di dirlo, sin dall’origine. Sempre in Matrix, Neo rispondeva a Morpheus di non credere nel destino – «non mi piace l’idea di non poter gestire la mia vita» – una frase che da ragazzino mi gasava come soltanto la scena della schivata delle pallottole sul tetto sapeva fare. 

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Quel che veniamo a sapere alla fine di Dark è che sì, l’amore tra Jonas e Martha era effettivamente sbagliato. Un’imperfezione, secondo una delle tante teorie l’eterno vagare delle proiezioni delle due anime perdute nell’incidente dell’universo originario. Ma esistono davvero amori sbagliati e nati giudicati? Piuttosto, trovo che quello che Dark abbia provato a insegnare nel corso di tre stagioni è che sono le scelte a qualificare davvero le persone che siamo. 

Adam credeva che la pace eterna potesse trovarsi solo nel nulla; che solo l’annichilimento più totale potesse assumere una valenza realmente salvifica. Siamo portati a pensare, per tradizione cristiana, che il paradiso sia un posto in cui la nostra anima possa trovare la pace, e connettiamo a questa idea (oltre che quella dell’immenso Riccardo Garrone intento a offrire il caffè un po’ a tutti in una bambagia accogliente fatta di nuvole) quella di una vita oltre la morte. Amore e morte, un dualismo ciclico e incapace di finire nel vacuo. L’idea del figlio di Dio, Adamo, in Dark è tutta l’opposto: le anime sono dannate e commettono scelte sbagliate; il paradiso, per come tradizionalmente concepito, è un’illusione. Solo il vuoto è in grado di salvarci.

Ma la redenzione, che tradizionalmente leghiamo a concetti spirituali, è in realtà quanto di più umano possa esserci. Informato da Claudia, Adam capisce che la sua visione è sbagliata. Esiste un altro mondo, non un bene superiore per cui lottare, ma un’altra possibilità di vedere le cose. Esiste un modo per spezzare dolore e sofferenza, ma occorre un grande sacrificio: quello di un uomo vecchio e consumato dal dolore come Adam, poi quello di due ragazzi, il loro amore e una prospettiva di vita insieme.

Il significato di Dark

Piuttosto che una storia sulla predestinazione e la capacità di saper rispettare, e al tempo stesso sfruttare, le logiche di un Dio tiranno come il tempo, credo che Dark sia una storia sulla nostra possibilità di scelta e di determinare chi realmente siamo. «Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che non sappiamo è un oceano»: anche se prima di noi sono state prese scelte identiche, addirittura da una nostra versione del passato, ciò non vuol dire che quelle scelte non abbiano definito il coraggio e le capacità di chi le ha intraprese. 

È fondamentale sapere se Eva riuscirà o meno a preservare il nodo quando la sua intenzione è quella di riuscirci? Troppo spesso il mondo di oggi è portato al giudizio dell’evidenza, dimenticando cosa significhi il sacrificio per ottenerla. In una delle più sublimi raffinazioni della serie, Eva accetta la morte di una versione di se stessa pur di consentire a suo figlio, la presupposta origine del nodo, di continuare a vivere. Il paradosso del gatto di Schrödinger consente a Dark di far coesistere due realtà contemporaneamente, destini diversi ma conviventi a seconda del momento in cui vengono fotografati. Martha muore e vive allo stesso momento, ma è l’amore di madre che la contraddistingue e la definisce. Che poi accada quel che è sempre accaduto è forse un aspetto secondario, specie, come in Dark, se non c’è possibilità di cambiarlo. Ed è forse questo il paradosso più grande che l’intera serie abbia saputo offrire in un arco narrativo che ci ha prima mostrato la ciclicità del tempo e poi l’esistenza di dimensioni parallele

Vittima di se stesso e manipolato da chi prometteva il suo bene, Helge Doppler ripete ossessivamente che «il principio è la fine e la fine è il principio». Il tempo, generalmente immaginato come una linea retta, è un cerchio. La predeterminazione, in fondo, è una possibilità come un’altra di definire quello che ci accade, di vedere il mondo, come le cose evolvono e magari ritornano. Ma non sono sicuro, parlo quantomeno a titolo personale, che mi importi più di tanto. Sapere che ciò che ci apprestiamo a fare sia già accaduto o sia stato precedentemente definito influisce per davvero sulle nostre scelte? E non sono queste, forse, a determinare chi siamo, a prescindere da ciò che accadrà?

Se il tempo – o più propriamente Dio, come suggerisce Adam – ha già scelto chi dovremo essere, la scelta più umana che ci resta è quella di vivere chi siamo. 

«Siamo fatti per stare insieme, non credere mai che non sia così». In un certo tempo, in un certo modo, Jonas e Marta lo credono. In un certo tempo, in un certo modo, Jonas e Marta lo sono.

Giusto o sbagliato che sia, non credo faccia la differenza. 

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.