Sto pensando di finirla qui: un thriller in technicolor

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Nelle fredde sere di febbraio, complice il coprifuoco, la Divulgatrice se ne sta spesso nel suo appartamento a sorseggiare una tisana sotto le coperte. La sua attività intellettuale, però, non si ferma mai, e anche dal divano di casa è capace di scovare nuovi argomenti e spunti interessanti da condividere con voi. Colori è il tema del mese in Galleria Millon e, nemmeno a farlo apposta, sono stati proprio i colori a travolgere inaspettatamente la Divulgatrice nel corso di una delle sue serate di relax. Tutto è iniziato con la telefonata di un’amica…

«Ieri sera ho visto un film strano, di cui non ho capito nulla. Cioè, in realtà credo di aver capito, ma… che confusione! È tratto da un romanzo, se ti va di leggerlo, che ha lo stesso titolo del film: Sto pensando di finirla qui».

Incuriosita dal suggerimento, la Divulgatrice fa una rapida ricerca online e ordina il libro. Con la solita perplessità in merito ai film tratti dai romanzi, si ripromette di non aprire Netflix, se non dopo aver dato una letta alle pagine.

Il romanzo: una vicenda normale, ma non troppo

Sto pensando di finirla qui è un romanzo di Iain Reid, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2016, che scorre velocemente ed è piuttosto accattivante. L’autore è abilissimo nel colorare una vicenda apparentemente banale con atmosfere inquietanti e dialoghi e soliloqui che nulla hanno da invidiare ai testi di filosofia.

La storia è raccontata in prima persona dalla protagonista, che insieme al suo nuovo ragazzo, Jake, affronta un viaggio in auto per andare a conoscere i “suoceri”. I giovani sembrano andare d’amore e d’accordo ed essere piuttosto presi l’uno dall’altra: lei è acuta e divertente; lui un tipo un po’ particolare, ma intellettualmente stimolante. 

Già dalle prime righe, però, risulta chiaro che il refrain del titolo – “sto pensando di finirla qui” – sia riferito al chiodo fisso della narratrice riguardo al concludere la loro relazione. La ragazza nasconde segreti angoscianti: c’è uno sconosciuto, ad esempio, che continua a chiamarla e a lasciarle enigmatici messaggi. Cosa ancora più strana, il numero da cui riceve le telefonate è il suo. Questi e altri turbamenti si alternano, nei suoi pensieri, a una serie di bei ricordi relativi all’inizio della relazione con Jake e a ragionamenti su quanto, in fondo, lei lo stimi e lo apprezzi.

La visita ai genitori: un crescendo di curiosità

L’autore raggiunge alti livelli nella resa di una certa inquietudine – sulla scia di Stephen King, per capirsi – nei capitoli dedicati alla visita ai genitori. Una fattoria decadente, animali morti, una foto di Jake da bambino, nella quale la protagonista giura di riconoscere se stessa. Una volta entrati in casa, il ragazzo diventa all’improvviso stranamente taciturno, lasciando la fidanzata in balìa di suo padre e sua madre. Essi si comportano in modo affabile e cordiale, ma spesso assumono degli atteggiamenti che definirei “da brivido”, da tanto sono bizzarri.

Nel corso di questa scena, per la prima e unica volta nel romanzo, ci si trova di fronte a dei curiosi riferimenti al colore:

«La madre è tutta sorrisi. Non ha smesso di sorridere da quando è apparsa dalla cucina. […] Indossa un vestito fuori moda a maniche corte, di velluto blu con un pizzo bianco da bambina intorno al collo e alle maniche. […] Un tipo di abito che non si vede tanto spesso.»

Iain Reid, Sto pensando di finirla qui, Milano, Rizzoli, 2020, pp. 114-115.

A fine pasto, dopo una serie di discorsi e situazioni imbarazzanti, la padrona di casa si assenta un attimo per andare a recuperare il dolce:

«Quando la madre di Jake torna a tavola, indossa un vestito diverso. Nessuno sembra farci caso. Forse è una sua abitudine, cambiarsi d’abito prima del dolce? È un cambiamento minimo. Un vestito identico al primo, ma di un altro colore. Come un’interferenza all’immagine su uno schermo fallato.»

Iain Reid, Sto pensando di finirla qui, Milano, Rizzoli, 2020, p. 124.

Confronto: alla ricerca dell’incompreso

A questo punto, la Divulgatrice ha letto più della metà del libro e, al di là delle chiamate misteriose e dell’episodio della foto sul muro, non ha individuato particolari assurdità. In fondo, si tratta di un thriller e gli elementi appena citati risultano fondamentali per tenere il lettore con il fiato sospeso. Per quasi tutte le altre stranezze, Reid sembra sempre fornire una spiegazione razionale: la storia familiare di Jake si scopre essere piuttosto tormentata. Sua madre soffre di diverse patologie; perfino il diverso colore del vestito viene giustificato con un probabile incidente in cucina, che costringe la donna a cambiarsi d’abito.

Alla Divulgatrice sembra arrivato il momento di chiedere all’amica alcune delucidazioni sulla sua confusione. Lei sostiene di aver effettivamente seguito la stessa vicenda, ma di aver fatto molta fatica a stare dietro alle continue variazioni di alcuni dettagli: l’età dei genitori, ad esempio, che nel corso della cena non smette di diminuire e aumentare; e i colori dei vestiti della protagonista che, nelle diverse situazioni, si modificano.

A questo punto, sto disperatamente cercando di non fare spoiler perciò, per quel che riguarda il romanzo, vi basti sapere che la rivelazione finale lascia piuttosto soddisfatti e niente affatto confusi. La tensione cala leggermente, forse, in una serie di capitoli un po’ trascinati e sempre uguali, ma il colpo di scena da thriller psicologico alla fine arriva. Insomma, alla Divulgatrice ora non resta che guardare il film.

Il film: la visione dei dettagli

Quando si guarda un film tratto da un romanzo che si è letto, risulta impossibile non fare confronti. Gran parte del problema è legata a un semplice fatto: generalmente, un romanzo non si vede, se non nella propria immaginazione. Nel momento in cui viene trasferito su un supporto visivo, dunque, assume le forme e i colori che una sola persona – spesso il regista, con il suo personale immaginario – sceglie di attribuirgli.

A proposito della versione cinematografica di Sto pensando di finirla qui, diretta da Charlie Kaufman per Netflix, c’è poco da confrontare con il libro riguardo alla vicenda e al suo svolgimento; la trama è riportata in maniera piuttosto fedele. Quello che colpisce è proprio la resa visiva: se Reid ha ravvivato lo scritto giocando sulle sfumature degli stati d’animo dei personaggi e del lettore, Kaufman, grazie al suo mezzo espressivo, ha la possibilità di renderle visibili. E qual è l’elemento capace di trasmettere uno stato d’animo nella maniera più semplice e immediata? Naturalmente, il colore.

La storia a colori: un chiaro caos

«– Ogni cosa è tinta e te ne devi rendere conto.
– Tinta?
– Colorata. Dall’umore, dalle emozioni, dall’esperienza passata. Non esiste una realtà obiettiva. Lo sai che non ci sono colori nell’universo, giusto? Sono solo nel cervello. Sono frequenze elettromagnetiche che il cervello tinge.
– Sì, sono un fisico, lo so cos’è il colore.
– Sì, sì, sì, vero. Tu lo sai.
– Il colore è opera della luce. Opera e sofferenza.
– È bellissimo. Non sono parole da fisico. Sono estremamente poetiche.
– Sì, beh, sono un poeta dopo tutto.»

Sto pensando di finirla qui, Charlie Kaufman, 2020

Piccolo assaggio di confusione: la protagonista, che nel libro non ha nome e nel film ne ha diversi – Lucy, Lucia, Louisa – dice di essere un fisico e subito dopo una poetessa. Nelle scene precedenti è anche una pittrice, una cameriera e una studentessa di gerontologia. Nel momento in cui avviene lo scambio di battute appena citato, indossa un cappotto blu, un maglione celeste e una sciarpa viola. Prima indossa gli stessi abiti, ma il cappotto è rosso, poi rosa; il maglione arancione e poi giallo; la sciarpa, chiara all’inizio, diventa scura. Sono dettagli che non si possono ignorare, soprattutto perché i cambi sono così repentini da non poter essere motivati razionalmente. Il disorientamento, dunque, è più che comprensibile.

Ma la Divulgatrice ha letto il libro, prima di vedere il film, perciò sa già dove la storia vuole andare a parare e riscontra una certa genialità in tutte queste variazioni. La sua, in realtà, è una visione falsata, corrotta, in qualche modo, dalla conoscenza. Invidia un po’ la sua amica, che ha guardato il film senza sapere nulla e ha potuto godere appieno dell’effetto spaesante ricercato e perfettamente ottenuto dal regista.

Ora lo dico io: sto pensando di finirla qui, per non rivelare nulla a chi non conosce la storia. Con il dialogo riportato dal film, ho già detto fin troppo. Come prima conclusione, invito soltanto a fare ciò che mai avrei pensato di consigliare: guardate prima il film e poi, se vi va, leggete il libro. Sto pensando di finirla qui (il film) è un’esperienza che va fatta con meno preparazione possibile, ma con orecchie e occhi ben aperti. Il bello è riuscire a cogliere tutte le sfumature… e sono tante!

Spoiler alert: il senso di tutto

Per concludere davvero, riporto l’attenzione su un punto che finora non ho potuto approfondire: Jake afferma che ogni cosa è colorata, ma non in senso assoluto, perché i colori nella realtà non esistono. Superando la spiegazione fisiologica, qui la questione viene affrontata da un punto di vista psicologico-percettivo: «Gli esseri umani percepiscono i colori come dotati di specifiche caratteristiche emozionali e la nostra reazione a queste caratteristiche può anche variare con il nostro umore e può cambiare tra persone diverse» (G. Cesarini Argiroffo, L’importanza del fenomeno cromatico per l’umanità).

Non è così strano, allora, che gli abiti di Lucy/Lucia/Louisa siano rossi, arancioni e gialli all’inizio del viaggio, quando Jake è felice ed emozionato di portare la sua ragazza a incontrare i genitori. Non è un caso che il nervosismo crescente, una volta giunti alla fattoria, li tinga di colori meno solari come il rosa, il viola o un giallo spento. Il blu della fine è di una tonalità scura, che può trasmettere calma, sì, ma anche serietà e un certo distacco.

Portata all’estremo, questa interpretazione spiega anche l’invecchiare e il ringiovanire dei genitori di Jake, i diversi nomi della ragazza e il variare della sua professione:

«Un ricordo è diverso ogni volta che viene ricordato e raccontato. Non è un dato assoluto. I racconti basati su eventi realmente accaduti molto spesso hanno a che fare più con la finzione che con la realtà. Vale sia con le cose inventate sia per quelle vere.»

Iain Reid, Sto pensando di finirla qui, Milano, Rizzoli, 2020, p. 64.

Non ce la faccio a scrivere chiaramente, nero su bianco, la soluzione finale. A questo punto dovrei aver fornito elementi sufficienti per permettervi di capire. Lascio soltanto ancora un indizio:

«Un pensiero può essere più reale, più vero, di un’azione. Puoi dire qualunque cosa, fare qualunque cosa, ma non puoi fingere un pensiero.»

Iain Reid, Sto pensando di finirla qui, Milano, Rizzoli, 2020, p. 9.

Questo è il mantra di Jake, il vero protagonista di Sto pensando di finirla qui, nel romanzo come nel film; il personaggio attraverso il quale viene filtrato tutto ciò che si legge, si vede o si immagina: le persone, il tempo, le esperienze… e i colori.

Illustrazione a cura di Noemi D’Atri.