OBEY Mother Earth: arte e attivismo secondo Shepard Fairey

OBEY Mother Earth: arte e attivismo secondo Shepard Fairey

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Vi suona familiare il nome di Shepard Fairey? La Divulgatrice lo conosce bene. Da anni ormai segue le peripezie di questo artista, designer e street artist dal successo planetario. Lo fa da quando appiccicava adesivi enigmatici sui muri di Providence. E non ha smesso certo ora che i suoi murales sono sparsi per tutto il mondo e i musei più prestigiosi espongono le sue opere.

A suo parere, non c’è personaggio migliore per esplorare il tema del mese di Galleria Millon, Madre Natura. Sì, perché lotta ecologica e rappresentazione femminile sono due dei principali temi politici ai quali Fairey è particolarmente legato. L’articolo di oggi vi parlerà di un artista che ha fatto della sua arte uno strumento per cambiare il mondo. Tra cadute e successi, come ogni storia che valga la pena di essere ascoltata.

Da trickster urbano ad attivista dal basso

Partiamo, come è giusto, dall’inizio. Siamo nel Rhode Island, nel 1989. Sui muri iniziano a comparire alcuni strani adesivi con il volto stilizzato del campione di wrestling André The Giant. Le persone cominciano a parlarne, incuriosite e spaventate, persino. Sembra essere nato un meme ante litteram. L’autore? Uno studente della RISD, un trickster urbano con la passione per gli stencil e ben informato sulla prassi di demarcazione territoriale tipica delle skater gang. Si chiama Shepard Fairey.

Non passa molto prima che questo ventenne cominci a capire la vera portata delle sue affissioni, iniziate per scherzo. Nota infatti che la presenza di un’icona misteriosa porta la gente a interrogarsi sulla natura di un possibile messaggio, anche quando è del tutto assente. Così Fairey si trasforma in un Socrate underground, i cui adesivi, ora coordinati alla scritta OBEY, mirano a scatenare una riflessione nell’osservatore. Siamo consapevoli della facilità con cui assorbiamo le immagini, quelle pubblicitarie in primis

Facciamo un salto avanti. George W. Bush diventa presidente degli Usa e scoppia la guerra in Iraq. Ora Fairey, che aveva sempre agito rivendicando la sua neutralità e l’assenza di un’agenda politica, si ricrede. È un antimilitarista, non ci sta: è ora di metterci la faccia. O meglio, di metterci una faccia. 

Avanti fino al 2007. Tra gli elettori democratici inizia a circolare un manifesto rosso, bianco e blu, con il volto di un giovane senatore afroamericano. A piè di pagina, una parola: HOPE. Il volto è quello del futuro presidente Barack Obama, l’arte è ancora quella di Shepard Fairey. Da molti il ritratto viene considerato il primo esemplare di una nuova iconografia della speranza, nata da un bisogno sotterraneo di cambiamento sociale e di rinnovamento dell’arte. È il punto di non ritorno. 

André adesivo
Il soggetto che ha reso famoso Fairey è frutto di una scelta totalmente casuale. Stava cercando un’immagine dalla quale partire per insegnare a un amico come si fanno gli stencil e per caso si è imbattuto in questa, che era parte di una pubblicità su un quotidiano. Solo a partire dal 1996, a causa di problemi legali, il volto di André diventerà quello stilizzato e quasi irriconoscibile che tutti conosciamo. Foto di RJ, fonte: Flickr.

Compromesso?

Finalmente, Fairey riconosce il potere dell’arte e lo abbraccia. Bisogna scatenare un dibattito, risvegliare la coscienza collettiva, affascinando e provocando insieme. Non basta suscitare una riflessione neutra, bisogna lottare per ciò in cui si crede.

Ma la strada per la definizione di sé passa per anfratti accidentati, e a volte è inevitabile cadere nel compromesso. Non si può dire, infatti, che Fairey sia immune alle contraddizioni. Ad esempio, all’inizio della sua carriera ha collaborato come designer con le grandi corporation di cui criticava la pubblicità aggressiva. Seduto di giorno a una scrivania, di notte si intrufolava nella metropolitana per boicottare la campagna di guerrilla marketing della Sprite. Negli anni ha collezionato ben diciotto arresti. 

Per alcuni, invece, la vera contraddizione sta tra i murales esposti alle intemperie su palazzoni cadenti e le tele pretenziosamente presentate in raffinate gallerie d’arte. Secondo Fairey queste critiche mancano il punto. Le strade e i musei, infatti, accolgono pubblici differenti, e bisogna arrivare a entrambi. È necessario fare la differenza a tutti i costi, in ogni luogo. E se la conseguenza è diventare mainstream, è un compromesso accettabile rispetto alla prospettiva di uno sterile isolazionismo. Perché il messaggio è troppo importante per rimanere inespresso. 

L’obiettivo è costruire un mondo migliore, e c’è un margine di manovra ampissimo. Rivendicare la giustizia in tutte le sue forme. Ribadire il rispetto per il prossimo, contro razzismo e sessismo. Lottare perché siano garantite pari opportunità alle donne, perché le multinazionali e il denaro non abbiano l’ultima parola. Ribadire l’importanza del voto informato e della scelta consapevole in ogni frangente di consumo. E, soprattutto, pretendere un pianeta pulito, sano e florido. Per Fairey, l’autocoscienza elaborata in ciascuno di questi ambiti è il presupposto per comprendere e agire in ognuno degli altri. Tutto è interconnesso, e ogni piccola azione è potenzialmente il primo passo di una rivoluzione endemica.

Costruttivismo, John Carpenter e Barbara Kruger

Ora spostiamo il nostro focus dall’artista all’arte, anche se solo apparentemente. L’immaginario che plasma il repertorio derivativo e postmodernista di Fairey è degno di uno sguardo attento. 

In primo luogo, ci troveremo una dose massiccia di controcultura: skater, musica punk e graffiti. Sempre dalle stesse parti, gravitano le critiche all’establishment di gruppi come i Black Flag, i Death Kennedy, i Bad Brains. Aggiungiamoci 1984 e Fahrenheit 451. E ancora, la Pop Art di Andy Warhol e Jasper Johns, insieme ai disegni di Robbie Conal e Raymond Pettibon. Non possiamo, poi, non citare i manifesti propagandistici comunisti e il costruttivismo russo, con i suoi font pesanti, i punti esclamativi e la palette minimalista. Ma soprattutto ci sono Barbara Kruger e They Live. Ecco, qui si nasconde la chiave di volta.

La fotografa femminista Barbara Kruger sta all’origine dello stile visuale di Fairey. Le sue scritte in Futura, inglobate in riquadri rossi affissi su foto in bianco e nero, hanno stregato un’intera generazione di designer. La palette di Fairey deve molto alla Kruger – e alle fotocopiatrici di Kinko’s, che non producevano stampe economiche se non in rosso, nero e bianco. 

They Live, il film fantascientifico del 1988 di John Carpenter, è invece il cuore del suo manifesto artistico. They Live ci mostra una società cieca che si lascia manipolare dal bombardamento delle immagini consumistiche. Ogni cartellone pubblicitario, visto nella sua vera essenza, è un imperativo silenzioso: consuma, riproduciti, obbedisci. Nell’iconografia di Fairey, perciò, il motto OBEY va letto come un atto di militanza politica, un saggio di psicologia inversa che dice: non obbedire, scegli consapevolmente. 

Fotogramma del film di John Carpenter “They Live”.
Un fotogramma dal film di John Carpenter “They Live”. Il protagonista, dopo aver indossato degli speciali occhiali rivelatori, riesce a vedere il vero messaggio che si nasconde dietro i cartelloni pubblicitari. Fonte: Just Screenshots.

OBEY Awareness e l’attivismo social

Promuovere la scelta consapevole è l’obiettivo di ogni gesto di Fairey. E nella sua faretra ci sono molte frecce. Quasi fin da subito, al fianco della produzione artistica sugli spazi pubblici e su tela, ha operato OBEY Clothing, la linea di apparel su cui capeggia il faccione del gigante. Perché, in fin dei conti, Fairey ha iniziato proprio così: realizzando stampe per un negozio di magliette. Oggi i suoi disegni sui capi d’abbigliamento sono ben più elaborati – e costosi. È rimasta identica, invece, la voglia di colpire.

L’attivismo si fa anche grazie alla moda, lo testimonia la campagna OBEY Awareness, promossa fin dal 2007. Annualmente, Fairey dedica una linea di vestiti ad alcune organizzazioni benefiche di cui condivide gli ideali. Quest’anno, per esempio, ha collaborato con il movimento Black Lives Matter. 

Scorrendo la lista dei partner, a cui va il totale dei profitti delle vendite, stupisce positivamente il numero di iniziative sostenute nella lotta all’emergenza climatica. Ha raccolto fondi per film come The 11th hour, documentario ambientalista del 2007, e per 180° South, con la speranza di sensibilizzare il pubblico sulla preservazione della Patagonia. Da anni collabora con l’ultracentenario Sierra Club, 350.org e l’NRDC, impegnati nella lotta contro i cambiamenti climatici e per la conservazione dell’ecosistema a beneficio di ogni essere vivente.

Gli attivisti di queste organizzazioni sono le voci autorevoli che Fairey non si stanca di riportare sui suoi profili social, che usa come una vera e propria vetrina. La sensibilizzazione diventa quasi un appuntamento quotidiano, un incontro in cui l’arte diventa un accattivante cavallo di Troia. E così chi lo segue ha modo di leggere le argomentazioni e i dati raccolti da quegli attivisti che diversamente, forse, non avrebbero avuto una risonanza di queste dimensioni.

Il murales “May Day”
Il murales “May Day”, nell’East Village a New York. Inglobato all’interno di quest’opera, troviamo “Global Warming”, un pezzo che ironizza sul negazionismo sui cambiamenti climatici. In merito al rapporto tra interessi economici e ecologia, Fairey rimanda al libro di Naomi Klein, “This changes everything”. Foto di Wally Gobetz, fonte: Flickr.

OBEY Mother Earth

Farsi strada fino al cuore, per mirare al cervello. E poi si spera che l’azione vera e propria venga da sé, soprattutto quando la questione in ballo ormai non ammette più tentennamenti. Come nel caso dell’emergenza climatica.

Fairey ha fatto e continua a fare molto per ribadire l’importanza della lotta collettiva contro l’inquinamento, lo sfruttamento delle risorse e il surriscaldamento globale. È sua la locandina della People’s Climate March del 2014. È sua anche Earth Crisis, la prima opera d’arte mai installata sulla Tour Eiffel, creata in occasione di COP21. Il suo ritratto di Greta Thunberg spicca sulla copertina del numero speciale di Rolling Stone sull’emergenza climatica. Infine, dopo il rientro degli Usa negli Accordi di Parigi, ha collaborato con Greenpeace in una campagna rivolta al neoeletto Joseph Biden, per promuovere il Green New Deal. 

Il messaggio ecologico, però, non compare solamente nelle opere motivate dalla collaborazione con una qualche organizzazione. Al contrario, per Fairey è un vero e proprio leitmotiv. Lo dimostrano le sue grandi vedute marine, i suoi panorami naturali paradisiaci minacciati dagli impianti petroliferi, i suoi cieli fluorescenti di gas inquinanti. Poi ci sono le latte piene di petrolio e i globi in fiamme, accompagnati da slogan ironici che invitano alla distruzione della Terra. E, infine, nascosti in bella vista, il simbolo del dollaro e il teschio, allegoria del patto folle tra le multinazionali e la Morte. Per Fairey, ancora una volta, è una questione di potere. Potere che è stretto nelle mani di chi può pagare gli scienziati per fare del negazionismo e tenere in ostaggio i governi per intralciare il cambiamento. Serve una presa di coscienza in primis, seguita poi dall’azione concreta, per raggiungere un’equa ridistribuzione del potere e salvare non solo la collettività, ma l’intero pianeta.

L’artista, allora, si fa avanti per smascherare la menzogna, nel modo più chiaro possibile, anche al costo di risultare pleonastico. Perché non abbiamo più tempo: non possiamo più permetterci il lusso dell’apatia

Il ritratto di Munira Ahmed
Il ritratto di Munira Ahmed, creato da Fairey in occasione della campagna “We The People” del 2017. L’intenzione era quella di creare icone rappresentative per tutte quelle minoranze che il presidente neoeletto Donald Trump aveva intenzione di marginalizzare con il suo programma politico. Questa e le altre immagini create da Fairey compaiono sui cartelli dei manifestanti che hanno protestato in tutta l’America durante i giorni dell’insediamento e alla Women’s March. Foto di Mark Zimmerman, fonte: Flickr.

Nuova iconografia rivoluzionaria

Per smuovere l’osservatore dalla sua apatia non basta provocare, bisogna anche affascinare: servono simboli catalizzatori, oltre che immagini caustiche. Il manifesto di Obama non è stato un caso, e la campagna We The People del 2017 lo ha confermato: i ritratti di Fairey hanno qualcosa di speciale. Il segreto, probabilmente, sta nella sua capacità di trasformare con grande facilità un volto in un’icona visionaria.

Questo vale anche per le sue donne. Nei dipinti e nei murales di Fairey, il femminile, in tutte le sue sfaccettature, è uno dei protagonisti assoluti. Venire rappresentati è un prerequisito fondamentale per l’inclusione e il riconoscimento di una minoranza, e le donne, secondo Fairey, non sono rappresentate a sufficienza. Per questo la sua iconografia trabocca di ritratti femminili. Ci sono donne velate, latine, afroamericane, asiatiche. C’è un ventaglio di icone femministe, che va da Angela Davis a Ruth Baden Ginsburg, accompagnate dai volti di giovani attiviste dei diritti civili. Ci sono le guerrigliere zapatiste e le combattenti portoghesi col garofano nel fucile, al fianco delle dottoresse alate, eroine nella lotta contro il Covid-19. Compaiono anche le sue figlie e la moglie Amanda, nei panni della Commanda, con lo sguardo fiero e la bomboletta spray in mano. 

Le donne di Fairey sono eterogenee; spesso appartengono a minoranze etniche e religiose. In queste immagini, la carica sensuale tipica dei feticci è totalmente assente, mentre è fortissimo l’afflato idealistico. Sono ritratti di combattenti dallo sguardo fiero e dal profilo maestoso, che irradiano forza e grazia. I soggetti ritratti sembrano prestare le loro sembianze per materializzare concetti complessi, come giustizia, uguaglianza e resilienza.Nell’arte, ancora una volta, Fairey vede l’opportunità per dare spessore alla lotta e sorreggerla con simboli vivi e vividi. La rivoluzione, che sia quella verde per un mondo più pulito o quella rosa per le pari opportunità, ha bisogno di slancio. Quello slancio che, con una palette ristretta a tre colori e una parola aggressiva svuotata della sua violenza, Shepard Fairey sa raffigurare alla perfezione. A partire dai muri delle città, passando per le tele, fino ad arrivare a qualcosa di piccolo, eppure straordinariamente destabilizzante come può esserlo un adesivo.

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.