Natura e letteratura francese: il loro rapporto alla fine del Settecento

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Sotto il regno di Luigi XVI (1774-1794) il rinnovamento dell’ispirazione letteraria si basa soprattutto su un nuovo approccio e una nuova visione della natura. La generazione precedente, in fin dei conti, cresce accompagnata da descrizioni spettacolari e accurate di essa. Basti pensare all’Histoire naturelle del conte di Buffon, o a gran parte della produzione di Rousseau. Il culto della natura nella seconda metà del Settecento deriva infatti, (tra le varie cose) da una reazione all’ordine razionale e metodico tipico del periodo illuminista. Dopotutto i francesi, nei loro jardins français perfettamente simmetrici, immensi e dalle geometrie impeccabili, si sentivano un po’ padroni della natura. Intorno alla fine del secolo, allora, cresce una voglia di evadere da questa ineccepibile condizione, andando a scavare nel profondo fino a giungere a una natura scompigliata, capricciosa e dominatrice, che invece troneggiava nei romantici giardini inglesi.

Évariste De Parny

Si inizia così a leggere il tema della natura nei poeti creoli: Évariste de Parny, originario dell’Île Bourbon, pubblica nel 1787 la raccolta di poemi in prosa Chansons Madécasses. Per il loro esotismo suggestivo e la libertà e frugalità ritrovata in una natura incontaminata, ispireranno il compositore Maurice Ravel negli anni Venti del Novecento. Ostile a Parigi e alle sue colonie, De Parny manifesta il suo anticolonialismo in una lettera all’amico scrittore Bertin.

Et des lataniers allongés / Y montrent loin à loin leur feuillage grisâtre […] / Et s’exposent sans crainte au canon du chasseur.

De Parny, Èlégies et poèsies diverses, Garnier Fréres, Libraires Éditeurs, Paris, 1861.

Non è possibile, a suo avviso, stare bene in un Paese in cui si pratica la schiavitù. Da qui i viaggi e i soggiorni all’estero e nelle aree periferiche della Francia. L’autore in realtà non ha mai messo piede in Madagascar, luogo di ambientazione delle Chansons, bensì viaggiò e soggiornò nelle Indie francesi. Questo “cambio di rotta” è comunque determinante nella sua prosa, in grado di trasporre in maniera significativa (per le ridotte conoscenze dell’epoca) le sue impressioni e riadattarle al contesto africano.

Bernardin de Saint-Pierre

L’altro autore che rende grande il tema della natura incontaminata, incolta e primitiva è Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre. Nato a Le Havre, si ispira a Robinson Crusoe, che pochi decenni prima aveva ottenuto un grande successo tra il pubblico inglese, e pubblica Paul et Virginie, nel 1787. Il romanzo si colloca nell’odierna Mauritius e, forse ispirato anche alla filosofia rousseauniana, racconta la storia di due bambini cresciuti nel più completo isolazionismo dalla modernità. Sull’isola i ragazzini vivono con le rispettive madri e conducono un’esistenza che rasenta il primitivo. Il forzato approccio con la modernità sarà la causa indiretta della morte di entrambi.

Lo Stato è simile ad un giardino, dove gli alberi piccoli non possono allignare se ve ne sono altri troppo grandi che li ombreggiano; ma con questa differenza, che la bellezza di un giardino può risultare da un piccolo numero di grandi alberi, mentre la prosperità di uno Stato dipende sempre dalla moltitudine e dall’eguaglianza dei sudditi, e non già da un piccolo numero di ricchi.

B. de Saint-Pierre, Paolo e Virginia, Mondadori, Milano, 1952.

Con quest’opera De Saint-Pierre muove una critica alla società disuguale e impari che vige nel XVIII secolo, che darà il via all’imminente Rivoluzione francese. A Mauritius regna invece l’armonia, l’uguaglianza, la parità. Paul e Virginie possiedono degli schiavi, ma collaborano con loro, quasi come colleghi. L’isola di Mauritius è l’esempio da seguire, la quotidianità da abbracciare. Ma per l’uomo moderno è troppo tardi per retrocedere alla purezza primitiva.

La satira dell’urbanità

Tuttavia, non sono soltanto la natura libera e indomabile a padroneggiare lo scenario letterario francese dell’epoca. In questo periodo la vita urbana è altrettanto in fermento, il progresso avanza e tecnologia e scienza prendono sempre più piede. Tra il 1781 e il 1788 Louis-Sébastien Mercier pubblica Le Tableau de Paris, un’opera mastodontica che racchiude la vita parigina, tra abitudini e costumi, alla vigilia della Rivoluzione. I primi due volumi, fortemente critici della società, sono pubblicati anonimi e costringono l’autore a fuggire in Svizzera, dove terminerà i restanti dieci libri della raccolta. Prima di lui, già Montesquieu si era cimentato in una satirica critica degli usi e costumi dei francesi, attraverso le sue Lettres persianes del 1721. Qui il gioco si rovescia e sono gli stranieri a far visita all’ “esotica” Francia, e a trovarne bizzarre e divertenti le piccolezze e le mondanità. Candido, nell’opera di Voltaire, conclude il suo viaggio dicendo che «Il faut cultiver son propre jardin» (Voltaire, Candide ou l’optimiste, Gallimard, Paris, 1999.), manifestando una netta divisione rispetto alla voglia di esplorare, scoprire e conoscere degli autori e dei personaggi che lo seguiranno circa vent’anni più tardi.

Questi punti di vista, apparentemente opposti, si rispecchiano l’uno nell’altro nel criticare la società dell’epoca, facendo da spia a una necessità di stravolgimento e rinnovamento (sociale e politico) che troveranno nella Rivoluzione del 1789 la propria valvola di sfogo.

Illustrazione a cura di Francesca Pisano.