Dmitrij Šostakovič, la musica e la politica: quando il regime reprime l’arte

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All’incirca un anno fa, se ben ricordate, la Divulgatrice si stava preparando al suo viaggio letterario in Russia, riempiendo una metaforica valigia non di stivali, sciarpe e berretti, bensì di romanzi. Il tour tra le pagine dei libri intendeva ricostruire la storia del Novecento russo – dalla Rivoluzione ai giorni nostri – attraverso le particolari vicende di alcuni tra i personaggi che l’hanno vissuta. C’erano scienziati, scrittori e politicanti, e c’era anche un musicista, il cui nome certamente vi sarà suonato familiare, poiché è uno dei compositori russi più famosi e acclamati in tutto il mondo: Dmitrij Šostakovič.

A un anno di distanza, per celebrare il tema del mese, la musica, la Divulgatrice ritorna in Russia – anzi, in Unione Sovietica – e dedica uno speciale approfondimento alla figura di Šostakovič. Anche questa volta, il suo fedele compagno di viaggio è un romanzo, Il rumore del tempo di Julian Barnes, che racconta quella che è una storia di musica e arte, certo, ma anche e soprattutto una straziante vicenda personale e politica

La nascita della musica: il talento e l’estro

Dmitrij Dmitrievič Šostakovič nacque a San Pietroburgo nel 1906 e fin da piccolissimo venne considerato un prodigio della musica. La prima parte della sua vita fu interamente dedicata a quest’arte, di cui, naturalmente, fece una professione. Nei periodi di difficoltà economica lavorò nei cinema muti come pianista accompagnatore, ma all’età di trent’anni aveva già più di una settantina di opere all’attivo e un discreto successo nel suo Paese e all’estero.

Come tutti i grandi artisti, Šostakovič non sapeva perché faceva ciò che faceva; sapeva soltanto che questo era ciò che doveva fare. 

Quando componeva, sapeva sempre cosa fare; come prendere la decisione giusta riguardo a ciò che la musica, la sua musica, gli chiedeva […]. Perché le sue decisioni e il suo istinto non si sbagliavano.

J. Barnes, Il rumore del tempo, Torino, Einaudi, 2016, pp. 35-36

A detta del suo estro, anche l’opera lirica Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1934) avrebbe raggiunto il favore del pubblico, e non solo per la musica. Le tematiche di cui trattava erano in totale armonia con le teorie comuniste e l’opera ebbe effettivamente successo finché, a una rappresentazione nel gennaio del 1936, al Bol’šoj di Mosca, volle presenziare Iosif Stalin.

La morte della musica: gli attacchi del regime 

Stalin decideva tutto, sia le linee generali che i minimi dettagli, praticamente in ogni campo. Essendo un pianista dilettante, era convinto di intuire con precisione in che direzione dovesse andare la musica, ed era la direzione opposta rispetto a quella che il bambino prodigio dell’avanguardia riteneva di poter prendere.

J. Brokken, Bagliori a San Pietroburgo, Milano, Iperborea, 2017, pp. 80-81

La storia narra che Stalin uscì indignato dal teatro moscovita prima della fine della rappresentazione e che qualche giorno dopo la Pravda, il giornale ufficiale del Partito Comunista sovietico, definì l’opera di Šostakovič come «caos anziché musica». Semplicemente, non era piaciuta al capo di stato, cosa che, in ambito estetico e artistico, è perfettamente normale.

Per Šostakovič, però, fu quello che si dice “l’inizio della fine”. Finito nel mirino del partito, il musicista venne innanzitutto accusato di scrivere musica secondo il gusto del «formalismo borghese». Nell’idea di Stalin, questo favoriva «la ricerca della perfezione stilistica, per cui più che le cose e i sentimenti da esprimere conta il modo di esprimerli» (Treccani). E non andare a genio a Stalin significava non poter più andare a genio a nessuno.

 Notò quali musicisti si esponessero ora con pubbliche dichiarazioni contro la sua opera, e quali amici e conoscenti scegliessero di prendere le distanze da lui. […] E infine ecco che sui giornali cominciò a comparire l’espressione che non lasciava scampo […]: “Oggi è in programma un concerto di brani del nemico del popolo Šostakovič”.

J. Barnes, Il rumore del tempo, Torino, Einaudi, 2016, p. 45

La morte dell’artista: il potere e il destino

Tutto ciò condusse gli uomini di Stalin a effettuare ulteriori indagini sul musicista e, possibilmente, a coglierlo in fallo non solo in ambito professionale. Non fu difficile. Šostakovič fu accusato di intrattenere rapporti con il maresciallo Tuchačevskij, coinvolto in un tentativo di attentato alla vita di Stalin. 

Dell’attentato Šostakovič non sapeva nulla – a casa di Tuchačevskij ci andava per suonare il pianoforte –, ma venne comunque convocato dai servizi segreti e interrogato in merito. Non potendo offrire informazioni, fu invitato a pensarci bene e a tornare in un secondo momento. Rassegnato a confessare il falso pur di farla finita, si presentò al secondo appuntamento e scoprì che il funzionario che aveva in carico il suo caso era svanito nel nulla – cosa per niente strana ai tempi di Stalin.

Insomma, Šostakovič – per uno scherzo del destino – era un uomo libero; ma era anche un artista morto. Ormai vittima di una vera e propria psicosi, il musicista passò diverse notti sul pianerottolo di casa, vestito di tutto punto e munito di valigia, convinto che sarebbero venuti a prenderlo per deportarlo in Siberia.

La valigia deposta ai suoi piedi era lì per rassicurarlo: una precauzione. Gli dava l’impressione di dominare gli eventi anziché esserne vittima. Coloro che uscivano di casa con una valigia di solito vi facevano ritorno. Chi invece veniva trascinato fuori dal letto in pigiama spesso non rientrava.

J. Barnes, Il rumore del tempo, Torino, Einaudi, 2016, p. 58

La sopravvivenza dell’arte: cambio di stile

Quella di Šostakovič come artista fu una morte soltanto apparente, anche se potremmo chiederci in eterno come sarebbe stata la sua musica se non si fosse verificato l’incidente del 1936. In ogni caso, il compositore non sapeva fare altro che musica e, quel che è più importante, non voleva fare altro. 

Per la sua indole docile, però, o semplicemente per amore del suo Paese, non volle mai nemmeno lasciare l’Unione Sovietica, come avevano fatto molti suoi colleghi. L’unico modo di far sopravvivere la propria arte restando in patria, dunque, era farla rientrare nelle grazie di Stalin.

Si dice che la sua Quinta Sinfonia (1937) sia stata scritta proprio con questo intento, seguendo i canoni dettati dal partito per quella che doveva essere la perfetta musica sovietica:

È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto continuasse a dirti: “Il tuo dovere è giubilare […]”, e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremante, e riprendi a marciare ripetendo: “Il nostro dovere è giubilare […]”.

J. Brokken, Bagliori a San Pietroburgo, Milano, Iperborea, 2017, p. 83.

Così scrisse Šostakovič all’amico Volkov in merito alle composizioni successive al disastro della Lady Macbeth; ma la sua rinuncia all’onestà artistica, se così si può dire, gli giovò.

La musica in trappola: viaggio negli Stati Uniti

Nel 1948, Stalin ritirò l’atto che dichiarava illegale eseguire in pubblico la musica di Šostakovič e gli chiese addirittura di partecipare come delegato alla Conferenza Internazionale della Pace a New York. Fu un duro colpo per il musicista, costretto in pubblico a leggere un discorso che, naturalmente, non aveva scritto lui e nel quale si promuovevano come vanto dell’Unione Sovietica scelte governative che, nella realtà dei fatti, l’avevano schiacciato e umiliato.

Ma ciò che fece soffrire ancora di più Šostakovič, in questo frangente, fu la consapevolezza di quanto la sua arte, il suo sentire e il suo credere fossero ormai asserviti alla politica. Gli americani lo rispettavano in qualità di musicista e diversi di loro lo provocavano, ragionando secondo la propria mentalità, invitandolo a scappare e a ribellarsi ai soprusi di Stalin. Ma lui non poteva e, anche in questo caso, non voleva.

Questa era gente […] che aveva bisogno di màrtiri per provare la ferocia del regime. […] L’artista doveva farsi gladiatore, lottare in pubblico contro bestie feroci, versare il proprio sangue nell’arena. […] Da lui tutti si erano sempre aspettati più di quanto fosse in condizioni di dare. Mentre lui dal canto suo avrebbe voluto dare solo musica.

J. Barnes, Il rumore del tempo, Torino, Einaudi, 2016, pp. 120-121

Libertà illusoria: l’ultimo compromesso

Šostakovič era un musicista. Non era né un eroe né un politicante, ma semplicemente un uomo che desiderava esprimere ciò che sgorgava dal suo animo artistico:

A me è sempre parso che, se compongo con animo sincero e fedele a quello che provo, la mia musica non potrà essere “contro” il Popolo […].

ivi, p. 88

Nel 1953 Stalin morì, e Šostakovič e la sua musica non corsero più alcun pericolo; anzi, il compositore dedicò al suo persecutore un’intera sinfonia, la Decima, nella quale si dice che traspaia tutta la spietatezza di colui che l’ha ispirata.

Sembra un lieto fine, con Chruščëv che nomina Šostakovič presidente dell’Unione dei compositori in qualità di più importante musicista sovietico vivente. Ovviamente, c’è un ma…

Šostakovič si dimostrò piuttosto restio ad accettare l’incarico, poiché sospettava che esso comportasse delle implicazioni politiche. 

Nonostante le difficoltà e i compromessi, fino a quel momento era sempre riuscito a mantenere una piccola forma personale di resistenza politica, non iscrivendosi mai al Partito Comunista. Per ottenere l’alta carica che gli veniva proposta, avrebbe dovuto cedere. Lo fece nel 1960, e pianse. 

In mortem: musica libera

Dmitrij Šostakovič visse i suoi ultimi anni nel rimorso di non essere stato capace di resistere fino alla fine e, forse, con il rimpianto ancora peggiore di non essere stato capace di resistere mai. Molte delle sue scelte possono sembrare guidate dalla viltà, ma non è così, ed è proprio ciò che Julian Barnes fa capire nel romanzo dedicato alla tormentata vita del compositore.

È l’amore per la musica che ha guidato Šostakovič. Un amore impacciato, forse, così come era lui in tutto ciò che non riguardava la sua arte. Un amore che gli ha dato la forza di preservarla nonostante tutto e di proteggerla come poteva. Certo, l’ha costretto anche a tenerla legata a sé e alle sue sventure; ma è sempre difficile rinunciare a qualcosa, quando la si ama.

La speranza era che la morte avrebbe liberato la sua musica, che l’avrebbe liberata dal legame diretto con la vita insomma. […] Storia e biografia erano destinate a sbiadire: un giorno forse Fascismo e Comunismo sarebbero diventati semplici parole da manuali per la scuola. A quel punto, se avesse conservato un proprio valore – se ancora ci fossero state orecchie ad ascoltare –, la sua musica sarebbe stata… musica e nient’altro […].

ivi, p. 199-200

Illustrazioni a cura di Francesca Pisano.