Amare, sentire, vivere, sorridere: le lettere mai spedite di Ludwig van Beethoven

Amare, sentire, vivere, sorridere: le lettere mai spedite di Ludwig van Beethoven

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Nel mese dedicato alle Corrispondenze, la Divulgatrice ha scelto di andare a frugare nello scrittoio di uno dei più grandi compositori di tutti i tempi, Ludwig van Beethoven. Vi ha trovato un sacco di partiture, naturalmente, ma ha preferito soffermarsi sulle lettere e gli scritti privati del musicista tedesco per approfondire la conoscenza del suo lato più intimo.

Nell’immaginario comune, influenzato sicuramente dall’iconografia, Beethoven è la perfetta rappresentazione di quello che si dice “genio e sregolatezza”. Il volto imbronciato, i capelli in disordine; uno spirito ribelle, l’uomo che, diventato sordo prima di compiere trent’anni, ha rivoluzionato la musica occidentale. Un titano, una forza della natura.

Ma è davvero questa l’essenza di Ludwig van Beethoven? Entrando nella sfera personale del genio grazie alla sua corrispondenza più segreta, scopriremo che non tutti gli aspetti che tradizionalmente caratterizzano il personaggio coincidono necessariamente con la realtà dell’uomo.

Lettera all’amata immortale.

Amare: la lettera all’amata immortale

Si dice che l’amore sia in grado di sciogliere anche i cuori più duri – o che sembrano tali – e pare che nemmeno il burbero Beethoven si sia potuto sottrarre al suo incantesimo. Tra le missive scritte di suo pugno, infatti, la più famosa è quella destinata all’«amata immortale». Scritta nell’arco di due giornate, è nota per la profondità dei sentimenti che pervadono tutte e tre le sue parti, ma anche per un certo alone di mistero. La lettera fu ritrovata in un cassetto nascosto soltanto dopo la morte del compositore, avvenuta a Vienna nel 1827. Era priva di destinatario e non era stata affrancata, ma il suo tono non lasciava spazio a dubbi: si trattava di una lettera d’amore.

Quanta nostalgia, quanto rimpianto di te – di te – di te – mia vita – mio tutto – addio – ti prego continua ad amarmi – non smentire mai il cuore fedelissimo del tuo amato
L.
eternamente tuo
eternamente mia
eternamente nostri

A. Casella, Beethoven intimo, Como, Manzoni Editore, 2020, p. 313.

Riporto la formula conclusiva, che è molto conosciuta, ma l’intero manoscritto funge da testimonianza per l’intensità dei sentimenti del compositore nei confronti della sua amata. Viene naturale chiedersi se fossero corrisposti. Non ci è dato di saperlo, dal momento che le lettere non furono mai spedite. Con esse, gli amici di Beethoven trovarono anche il piccolo ritratto di una donna, ma nessuno fu mai in grado di capire chi fosse: la sua identità è stata e rimane un vero e proprio mistero legato al compositore.

Intorno alla ricerca della dama misteriosa ruota il film di Bernard Rose intitolato proprio Amata immortale (1994). Sebbene ormai possa risultare piuttosto datata, la pellicola può comunque essere uno strumento utile a scoprire il lato umano e romantico di Beethoven. La ricostruzione dei fatti è basata più sul gusto e la fantasia del regista che sulla realtà ma, come si è detto, riguardo alla vera vicenda non vi sono certezze. Di sicuro, però, il genio di Bonn aveva un cuore palpitante e colmo d’amore.

Sentire: il testamento di Heiligenstadt

Era un artista, e lo era esclusivamente grazie alla musica. Le angustie della vita lo avevano ferito profondamente ed egli si era ancora più aggrappato alla sua arte, anche quando l’uscio attraverso il quale essa ci pervade gli si chiuse. La musica parlava attraverso l’orecchio sordo a un uomo che non poteva più sentirla. Ma, la musica, egli l’aveva nel cuore.

Amata immortale, B. Rose, 1994.

Con queste parole Anton Schindler porge l’ultimo saluto a Ludwig van Beethoven nella scena iniziale del film di Rose. Schindler fu davvero un caro amico del compositore e fu proprio lui a trovare in casa sua le lettere nascoste, il ritratto e un ulteriore manoscritto, passato alla storia come il testamento di Heiligenstadt. Sebbene vi siano dei riferimenti a lasciti ed eredità, non si tratta di un vero e proprio testamento; è piuttosto una lettera, che Beethoven scrisse ai suoi fratelli e, anche in questo caso, non spedì mai. L’argomento principale è la profonda disperazione causatagli dalla malattia che lo affliggeva da tempo e che nel 1802 – anno di stesura del testamento – l’aveva ormai reso completamente sordo.

La disperazione è quella del musicista, certo, di colui che fatica sempre di più a vivere di un’arte che non si può vedere o toccare, ma soltanto sentire: «Come potrei rivelare proprio la debolezza di un senso che io dovrei possedere più perfetto di ogni altro» (M.A. Epifani, D. de Fazio, Il Testamento di Heiligenstadt, Treccani Magazine, 30 novembre 2020). La disperazione, però, è anche quella di un essere umano costretto all’isolamento perché impossibilitato a comunicare con gli altri: «O voi uomini che mi ritenete o mi fate passare per astioso, folle e misantropo, come siete ingiusti con me!» (Ibidem).

Per quel che riguarda il “mito”, la sordità di Beethoven è senz’altro una caratteristica che ne accresce la potenza. Tuttavia, è arduo dire lo stesso, se la si considera dal punto di vista dell’uomo costretto a subirla. Beethoven dovette molto, però, al suo temperamento e al suo carattere difficile: se in diverse occasioni riuscì a riemergere dall’abisso, fu anche per merito dei suoi “difetti”.

Testamento di Heiligenstadt.
Fonte: Wikipedia.

Vivere, nonostante tutto: questione di carattere

Il testamento di Heiligenstadt non è soltanto un appello disperato, così come la lettera all’amata immortale non contiene esclusivamente parole d’amore e struggimento. Beethoven era un uomo che reagiva positivamente alle difficoltà, che non si dava per vinto e, anzi, godeva delle situazioni estreme.

[…] poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita – La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di avere creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre.

L. van Beethoven, testamento di Heiligenstadt, www.lvbeethoven.it.

Nonostante l’impossibilità di udire la sua musica, il genio non accettò mai l’idea di smettere di comporla. Fu l’arte a salvarlo, ma furono anche la caparbietà, l’ostinatezza, la volontà di far sentire a tutti ciò che sentiva dentro di sé.

In termini decisamente più quotidiani, questo aspetto di ribellione alle circostanze coatte appare anche nella lettera all’amata immortale, là dove, come in un intermezzo tra le ardenti dichiarazioni, il compositore racconta di un difficile viaggio in carrozza:

sono arrivato qui ieri alle 4 di mattina, […] ma che orribile strada, all’ultima stazione mi avevano sconsigliato di viaggiare di notte, di guardarmi dall’attraversare un certo bosco, ma ciò mi aveva invece stuzzicato […] mi sono persino divertito come mi accade sempre in caso di scampato pericolo […].

A. Casella, Beethoven intimo, Como, Manzoni Editore, 2020, p. 310.

È un passaggio che fa inevitabilmente sorridere, poiché definisce ancora meglio il carattere indomabile di Beethoven. Soprattutto, però, attesta come anche un uomo del suo calibro non desiderasse altro che condividere con chi amava una disavventura o il racconto di una giornata. Alla luce di ciò che è contenuto negli scritti più intimi del compositore, non possiamo più esimerci dal considerare che quella del suo personaggio è una costruzione successiva. L’autore dei testi fin qui riportati era, davvero, “soltanto” un uomo.

Sorridere: la maschera da vivo

Per chiudere il cerchio, riporto un’ultima curiosità che riguarda il famoso “broncio” di Ludwig van Beethoven. Come detto in apertura, l’iconografia ha da sempre tramandato un’immagine del compositore piuttosto seria. Ciò è dovuto a un’altra disavventura, questa volta legata al suo viso.

Nel 1812, Beethoven si recò nel laboratorio di un artista per onorare un’usanza dell’epoca e posare per una “maschera da vivo”. La procedura prevedeva che la persona di cui si doveva ottenere il calco del volto rimanesse per parecchio tempo con la faccia cosparsa prima di olio e poi di gesso, e delle cannucce infilate nelle narici. Si racconta che, a una prima applicazione del materiale, il compositore fu colto dal panico e dovette ripulirsi in fretta e furia. Una volta calmatosi, riuscì a subire la tortura per una seconda volta, ma la maschera ne uscì con un’espressione tutt’altro che distesa.

È facile capire come mai Beethoven non permise più a nessuno di tentare esperimenti artistici sul suo volto, perciò quella imbronciata rimase la sua espressione ufficiale. La maggior parte dei ritratti eseguiti in seguito alla sua morte è ispirata a questa maschera e questo è il motivo per cui l’iconografia ne tramanda un’immagine così accigliata.

Nonostante l’approccio al grande genio della musica sia stato, finora, un po’ inusuale, non posso non concludere con un omaggio alla sua arte, il gran finale della Sinfonia n. 9, l’ultimo componimento di Ludwig van Beethoven. Esso racchiude e sprigiona tutto ciò che è stato il suo creatore: amore, forza, vita e, nonostante tutto, gioia.

Per la documentazione e il prezioso aiuto nella realizzazione di questo articolo ringrazio la Famiglia Carrino e la Biblioteca Beethoveniana di Muggia (TS).

Illustrazione a cura di Francesca Pisano.