I poeti maledetti e la scelta del colore

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L’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima.

V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano, 2005.

La Divulgatrice oggi ci mostra un aspetto della poesia che ha sempre affascinato le penne e le menti dei suoi autori: il colore. Il colore assume una valenza importante sia nella psicologia che nella scelta stilistica degli artisti. Viene usato come mezzo per enfatizzare, comunicare e ampliare lo spettro visivo di chi riceve la poesia. Grandi fautori del colore sono i poeti simbolisti.

Il simbolismo, movimento letterario e artistico della fin du siècle, è caratterizzato dal rifiuto della rappresentazione diretta e conforme alla realtà in favore di un’evocazione e una suggestione pittoresca. Nasce come risposta al naturalismo e alla noia scaturita dalla mediocrità della nascente borghesia. Compito dell’arte, secondo i simbolisti, è far evadere l’artista (unico “illuminato” in mezzo alla bassezza popolare) dalla noia tramite l’estremo e l’abuso. Questa corrente fa parte di una più ampia visione, non solo artistica, che si contrappone al naturalismo degli impressionisti. Tra i poeti simbolisti si fa largo uso delle figure retoriche, e in particolare della sinestesia, l’associazione tra due parole appartenenti a diverse sfere sensoriali. Tra le sinestesie più note, alcune scaturite dai più profondi ricordi dei poeti, vi è l’associazione di colori a suoni o immagini.

Le Vocali di Arthur Rimbaud

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali!
Un giorno dirò i vostri ascosi nascimenti:
A, nero vello al corpo delle mosche lucenti
Che ronzano al di sopra dei crudeli fetori,

Golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,
Lance di ghiaccio, bianchi re, brividi di umbelle;
I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle
Che ridono di collera, di ebrezze penitenti;

U, cicli, vibrazioni sacre dei mari verdi,
Quiete di bestie ai campi, e quiete di ampie rughe
Che l’alchimia imprime alle fonti studiose.

O, la suprema Tromba piena di stridi strani,
Silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:
– O, l’Omega, ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!

A. Rimbaud, Vocali, in Tutte le poesie, Newton Compton Editori, Roma, 2014.

Il giovane Rimbaud, grande amico di Paul Verlaine, sin dalla tenera età manifesta una grande sensibilità e una forte repulsione per il mondo che lo circonda. Numerose le fughe dalla città natale e gli eccessi, che lo porteranno a morire giovanissimo, a poco meno di quarant’anni. Vocali è forse una delle sue poesie più note. Al componimento sono state fornite molte interpretazioni: secondo una di queste, il poeta gioca con le parole, i colori e i suoni. Non è chiaro però se il giovane poeta percepisse davvero la sinestesia, cogliendo il colore delle vocali, o se la sua fosse soltanto una licenza poetica. Le lettere diventano qui oggetto di intrattenimento e i colori hanno la natura di ricordi direttamente collegati, presuppongono alcuni critici, all’infanzia del poeta.

L’amico Paul Verlaine pare confermare la sinestesia di Rimbaud, con le parole: «Io, che l’ho conosciuto, so che non gl’interessava affatto se A fosse rossa o verde. Lui la vedeva così, ecco tutto». Un’altra interpretazione vuole Rimbaud influenzato dall’insegnamento musicale ricevuto dal boemo Ernest Cabaner. La didattica di quest’ultimo era basata proprio sul cosiddetto “cromatismo musicale”. Cabaner, infatti, “colorava” le note e attribuiva loro il suono di una vocale. Non era un metodo nuovo: già due secoli prima il gesuita padre Castel aveva adottato questa tecnica per i principianti della musica. Il musicista boemo dedicò inoltre a Rimbaud il Sonetto dei sette numeri in cui associava note musicali, vocali e colori.

Le Corrispondenze di Charles Baudelaire

La Natura è un tempio in cui pilastri vivi
a volte emettono confuse parole;
l’uomo, osservato da occhi familiari,
tra foreste di simboli s’avanza.

Come le lunghi echi, che lontano si confondono
in una unità profonda e tenebrosa
vasta come la notte e come la luce,
i profumi, i colori ed i suoni si rispondono.

Esistono profumi freschi come carni di bambino,
dolci come oboi, verdi come prati,
– ed altri corrotti, ricchi e trionfanti,

che hanno l’espansione delle infinite cose,
come l’ambra, il muschio, l’incenso e il benzoino
e cantano l’estasi delle spirito e dei sensi.

C. Baudelaire, Corrispondenze, in I fiori del male e tutte le poesie, Newton Compton Editori, Roma, 2013.

La vita di Baudelaire non è stata per niente facile. Gli abusi in famiglia, una fortuna dilapidata in pochi anni in gioco e alcol e l’instabilità dei suoi lavori hanno contribuito a renderlo un personaggio controverso e difficile da gestire. La prima edizione della sua raccolta I fiori del male è stata giudicata scandalosa. Per poterla leggere oggi, il povero Baudelaire ha dovuto rivederla e renderla (lievemente) più politically correct, una scelta sicuramente sofferta per un Ariete ascendente Vergine.

Il poeta francese, in realtà precursore del movimento simbolista, afferma in questo sonetto che tutte le cose sono correlate tra loro da un legame misterioso. Ne consegue quindi che spesso una richiama l’altra, come un profumo o un colore o una musica richiamano ricordi e tempi lontani. Non è quindi raro trovare sinestesie nei suoi componimenti. In Corrispondenze i colori, i suoni, i profumi del mondo si fondono in una sorta di dialogo. Il poeta è in grado di percepire i legami tra gli elementi della Natura: tuttavia, non arriva a conoscerli nel profondo. Come manifestato nei versi 6-7, essi infatti «si rispondono in una unità profonda e tenebrosa / vasta come la notte e come la luce». I diversi sensi, che di solito rispondono e agiscono separati, intonano nelle sinestesie simboliste un’armonica sinfonia. Dentro a essa, sensi e anima restano inevitabilmente intrappolati, generando una (con)fusione di colori, profumi e suoni.

La sinestesia: il pane dei francesi (ma non solo)

Non solo simbolisti e non solo colore; i francesi sono molto attratti da questa figura retorica. Chi ha visto Ratatouille non può non associare la scena del critico d’arte Anton Ego, che rivive esperienze indelebili della sua infanzia assaggiando l’omonimo piatto, a una scena similare descritta da Proust. In À la recherche du temps perdu, assaggiando un pezzetto di madeleine inzuppato nel tè il narratore adolescente vive una sorta di improvvisa dissociazione. La memoria, risvegliata dal gusto e dal profumo del dolcetto, lo riporta all’indietro nel tempo e altrove nello spazio. Proprio come succede ad Anton Ego.

In queste situazioni entra in gioco quella che Proust chiama memoria involontaria, che “resuscita” in noi alcune tracce sepolte nelle zone cerebrali deputate ai cinque sensi. Una sorta di impiegata che apre tanti cassetti da cui strabordano i ricordi e le sensazioni che avevamo archiviato. È un processo associativo: basta un minimo input per rievocare uno spettro di emozioni più ampio. Non è solo una velleità letteraria, però: tutti noi abbiamo un suono o un profumo che ci evoca immagini e ci trasporta nel tempo e nello spazio. Ognuno di noi ha le sue madeleine personali. E forse, come Rimbaud, ognuno di noi prova esperienze sinestetiche legate al colore. E a chi vi dirà che «vedete tutto nero», rispondete loro che no, in realtà lo vedete semplicemente come una A.

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.