Milano Collective: intervista al graphic designer Didier Rigollet

Milano Collective: intervista al graphic designer Didier Rigollet

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Oggi il Curatore e la Gallerista sono partiti alla conquista di Milano. La tappa della loro gita fuori porta è stata Milano Collective, dove hanno incontrato uno dei fondatori, Didier Rigollet.

Nato nel 1984 tra i monti della Valle d’Aosta e laureato in Psicologia della comunicazione, Didier è un graphic designer freelance.
Durante il periodo universitario ha seguito un corso in graphic design all’istituto Bauer, tenuto dal professore Simone Ciotola, rivelatosi un’importante chiave di accesso al mondo del design. Conseguita la laurea, non volendo più proseguire il percorso accademico, Didier ha deciso di affacciarsi al mondo del lavoro. La vittoria del concorso Giovane Grafica Italiana gli ha permesso di collaborare con KesselsKramer, un’agenzia con sede in una chiesa sconsacrata sui canali di Amsterdam.

Ciao Didier. Partiamo con una domanda un po’ nostalgica: quando ti sei avvicinato al mondo del graphic design e cosa ha fatto nascere in te un particolare interesse nei confronti di quest’arte?

Fin da ragazzino sono sempre stato interessato al graphic design. Ho iniziato facendo vari esperimenti con Paint, ad esempio disegnando snowboarder con tute logate, e collezionando i flyer delle feste, che trattavo come oggetti preziosi.

Sono stato il primo della mia famiglia a lasciare le montagne e a voler fare un lavoro creativo, e credo che non sia ancora chiaro a tutti i miei famigliari quello che faccio. Non sopportavo l’idea di vivere in una realtà limitata come quella valdostana, ero troppo curioso di vedere il mondo e non sentivo nessun tipo di appartenenza a quel contesto sociale, così ho voluto provare la vita di città.
Il mio sentirmi alienato, prima nel contesto famigliare e poi anche in quello sociale e lavorativo, mi ha spinto a sperimentare e a fare delle scelte che all’inizio sembravano folli, ma che poi si sono rivelate le migliori.

Quando sono partito per Milano non sapevo nemmeno cosa fosse un grafico, ma alla fine della triennale, quando ho capito quello che mi piaceva fare e dopo una marea di mosse azzardate, fatte per inseguire le mie passioni e per allontanarmi da ciò che non condividevo, mi sono creato nuove possibilità. Adesso faccio il graphic designer da dodici anni.

Ad anni di distanza com’è mutato il tuo rapporto con questa disciplina? Oggi cosa significa per te essere un graphic designer?

Con il termine “graphic design” si descrive una serie di discipline progettuali che spaziano dal brand design all’advertising, dal font design al pattern design, dal packaging al web graphic design. Si tratta, perciò, di una moltitudine di attività che nel corso degli anni mi hanno portato a sviluppare un’attitudine, più che un vero e proprio metodo di progettazione, da applicare a contesti completamente diversi tra loro.
Questo mestiere non lascia spazio alla noia e regala sempre nuove sfide, che richiedono evoluzioni a livello professionale e umano.

Inoltre, i linguaggi della grafica nascono dal vocabolario visivo della società, e si alimentano dei nuovi trend e delle specificità del lessico visivo dei vari settori commerciali. È una ricerca continua che mi mantiene vivo e curioso, in un ininterrotto fluire di domande, spunti e suggestioni.

A volte il limite tra lavoro e tempo libero non è definito: i giorni infrasettimanali e festivi, come i periodi lavorativi o di vacanza, si alternano in maniera imprevedibile, seguendo lo svolgersi degli eventi e dei progetti. Però non mi pesa concedere parecchie ore alla progettazione grafica: dedicarmi a ciò che ho scelto di fare mi consente di lavorare con passione su qualsiasi tipo di progetto, e mi garantisce un’entrata economica adeguata a soddisfare le necessità del quotidiano.

Milano Collective: intervista al graphic designer Didier Rigollet
Lo studio di Milano Collective

Lo scorso anno Milano Collective ha compiuto dieci anni. Cosa ti ha spinto nel 2010 a fondare un collettivo composto da creativi e freelance che condividono la passione per il graphic design?

Milano Collective è nato come un progetto amatoriale tra amici. All’inizio eravamo in cinque – c’erano anche una fotografa, un illustratore e uno studente di architettura – e abbiamo deciso insieme di provare a lavorare in gruppo. Nessuno di noi aveva mai sperimentato la vita da freelance e unendoci abbiamo creato un terreno comune su cui coltivare uno spazio di indipendenza. Sin dall’inizio l’idea era quella di diventare freelance autonomi e fare gruppo per collaborare sui progetti multidisciplinari. Ricordo che mentre vivevo ad Amsterdam i ragazzi erano venuti a trovarmi e lì avevamo deciso di provarci seriamente.

Quando sono tornato in Italia, abbiamo trovato un loft a Lambrate e lo abbiamo ristrutturato con le nostre mani; era l’estate del 2010. Era uno spazio per creare, una stanza dei giochi in cui mettere alla prova la nostra creatività e maturare nuove competenze. L’entusiasmo era il motivo per andare avanti nonostante non ci fossero certezze economiche, e l’essere in gruppo è stato fondamentale per superare i grandi momenti di sconforto.

Con il passare degli anni ci sono stati molti cambiamenti, squilibri e nuovi equilibri. Stagisti e freelance si sono alternati, le persone sono arrivate e partite seguendo i loro percorsi di vita, e del gruppo iniziale ora siamo in due, ma l’idea del collettivo è rimasta intatta. Ci siamo trasferiti in piazza Cavour da un paio di anni, abbiamo indirizzato il progetto interamente sul graphic design e collaboriamo anche con altri freelance, mantenendo il concetto originario di questo progetto. La nostra è una realtà molto dinamica, e così come ha preso numerose forme in questi anni, potrebbe prenderne di nuove negli anni a venire.

Scorrendo il sito di Milano Collective è impossibile non notare le importanti ed eterogenee realtà con cui hai collaborato: Bulgari, il Nouveau Musée National de Monaco, Mattel e Carrera, per citarne alcune. Quale tra i progetti realizzati senti più vicino alla tua concezione di graphic design?

Nel corso degli anni ci siamo confrontati con clienti molto diversi tra loro, ognuno ci ha mostrato le dinamiche della propria realtà e ogni esperienza si è rivelata fondamentale.

Il primo cliente a darci fiducia è stato il Nouveau Musée National de Monaco: la direttrice, Marie-Claude Beaud, e il responsabile dello sviluppo e dei progetti internazionali, Cristiano Raimondi, hanno deciso di testare le nostre capacità, affidandoci la creazione di una prima pagina pubblicitaria. Da allora abbiamo sempre affiancato il museo nella creazione di grafiche istituzionali o dedicate alle mostre, sia come segnaletica che materiali pubblicitari.

Il Nouveau Musée National de Monaco ci ha permesso di approfondire la conoscenza del mondo dell’arte e di lavorare con vari curatori e artisti. Ricordo con affetto la mostra Oceanomania, realizzata in collaborazione con il Museo Oceanografico di Monte Carlo, per la quale abbiamo prodotto vari materiali.

Infine, vedo nella promozione della cultura un valore sociale: credo che educare le persone all’esperienza dell’arte innalzi il loro livello di attenzione verso il miracolo della vita.

Milano Collective: intervista al graphic designer Didier Rigollet
Progetti grafici per la mostra Oceanomania.

Nei lavori su commissione, l’impronta del designer non deve mai essere invadente. In che modo riesci a combinare la tua sensibilità e le tue idee con le richieste del cliente senza che la tua personalità risulti preponderante?

Quando lavoro per un cliente cerco di entrare nella sua testa e di parlare la sua lingua. Credo che sia questa la più grande differenza tra un designer e un artista: quest’ultimo ha totale libertà di espressione e cerca di manifestare il più possibile le sue idee e la sua personalità; il graphic designer, invece, deve incanalare il proprio flusso creativo e dirigerlo verso specifiche esigenze comunicative e commerciali dettate dal committente.

Si tratta di conciliare la propria parte intuitiva con quella razionale, dettando limiti e possibilità attuabili in quello specifico contesto. Questi due aspetti si alternano in una danza per tutto lo svolgersi di un progetto. Le proprie proposte vanno confrontate con le richieste del cliente, al quale si sottopongono le proprie idee cercando di intuire le sue esigenze profonde. Tuttavia, il risultato viene rivisto in modo pragmatico per trovare un compromesso che sappia accogliere i limiti di varia natura, come quelli legati alle tecniche produttive.

Mi piace pensare che questa alternanza necessaria, oltre a sviluppare la capacità di muoversi tra razionalità e intuizione, alleni entrambi gli emisferi del cervello impiegandoli all’unisono.

A chi o a cosa ti ispiri durante la fase di progettazione?

La natura, il mondo dell’arte e del design sono dei grandi calderoni di nuove idee, anche se faccio ricerche piuttosto casuali in questi settori, più per piacere personale.
Quando devo lavorare su un progetto mi focalizzo sugli ambiti specifici, analizzando i dettagli di quei settori di cui ho una conoscenza generica.

La ricerca va, da un lato, alimentata di continuo con una sana curiosità; dall’altro, non va mai forzata perché si rischia di sovraccaricarsi di informazioni. In questo credo sia fondamentale ascoltarsi e seguire il proprio ritmo personale: ci sono momenti in cui abbiamo bisogno di assorbire nuove ispirazioni e altri in cui dobbiamo mettere a frutto ciò che abbiamo elaborato.
Da questo punto di vista i social media, soprattutto Instagram, presentano aspetti controversi: se da un lato ci riempiono quotidianamente di nuove ispirazioni, dall’altro ci paralizzano in questo loop di accumulazione seriale, senza che ci sia la possibilità di un reale impiego di tutto ciò che vediamo. Per questo motivo credo sia molto importante selezionare le fonti e di conseguenza le informazioni in entrata, cercando di semplificare questi flussi per poter mantenere un contatto con se stessi. È come un movimento respiratorio che richiede alternanza per non continuare a procrastinare nella bulimia dei nuovi spunti. Credo che trovare un proprio ritmo personale, vitale e non condizionato, sia l’unica soluzione equilibrata per bilanciare ispirazione e atto creativo.

Progetti grafici per la Biennale di Milano.

Il tema di febbraio di Galleria Millon è Colori. Qual è il processo creativo che ti porta alla scelta di una determinata palette di colori? Al di là di quelle che possono essere le esigenze e le richieste di un cliente.

Ogni colore corrisponde a una determinata frequenza della luce, che interagisce con il nostro sistema visivo. La percezione coinvolge aspetti sia oggettivi che soggettivi, legati al funzionamento degli organi sensoriali ma anche alle emozioni che un determinato colore evoca. Nella scelta di un colore intervengono anche i condizionamenti culturali e personali, questi ultimi basati sulle nostre convinzioni ed esperienze.

Trovo che la capacità di lavorare con il colore si evolva nel tempo. Solamente dedicando spazio e tempo al suo utilizzo, possiamo sviluppare con esso una relazione sempre più intima, totalmente soggettiva, ma anche condivisibile, libera e non condizionata.

Guardandoci attorno con occhi curiosi, attenti e contemplativi possiamo cogliere infinite palette, con gamme di colori così varie da adattarsi a qualsiasi esigenza. La natura può rappresentare un terreno comune che trascende le percezioni del singolo, regalandoci un linguaggio universale, come può essere il colore.

Ai nostri intervistati chiediamo sempre alcuni consigli libreschi. Hai da suggerire qualche libro che nella libreria di un graphic designer o di un appassionato di grafica non può mancare?

Può essere interessante ripercorrere la storia della grafica e acquistare libri da impiegare come spunti per produzione di vari lavori. Abbiamo alcuni libri in studio molto belli, per citarne tre: New Scandinavian Graphic Design, 100 Years of Swiss Graphic Design e Type: A Visual History of Typefaces and Graphic Styles.
Ma proprio perché trovo che la grafica si alimenti grazie alle più svariate ispirazioni, consiglio di seguire l’istinto e di coltivare tutto ciò che accende la propria curiosità. Credo che la creatività abbia bisogno di una base tecnica per esprimersi, ma che poi debba slegarsi dalle impostazioni scolastiche per evolversi liberamente. Per questo consiglio a ogni designer di mettere in discussione le proprie certezze, lasciando emergere le caratteristiche della propria unicità e farsi guidare da quella. A tal proposito, un ultimo libro che consiglierei non parla di grafica ma di come le nostre vite si svolgano sulla base degli automatismi della mente, regalandoci un grado di libertà molto inferiore a quello che pensiamo di avere. Si tratta del Potere di adesso di Eckhart Tolle, un libro che per me ha rappresentato un passaggio importante nella liberazione da una serie di idee preconfezionate di cui non ero consapevole.

Rielaborazioni grafiche a cura di Martina Nenna.