Sylvia Plath, tra insoddisfazione e desiderio

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Se non pensassi, sarei molto più felice; se non avessi alcun organo sessuale, non sarei sempre sull’orlo di una crisi di nervi o di pianto.
(S. Plath, Diari, Milano, Adelphi, 2004, p. 35)

Sylvia Plath è probabilmente la più grande scrittrice statunitense mai esistita. Nata a Boston nel 1932, sotto il segno dello Scorpione, comincia la sua carriera di scrittrice sin da giovane. Nota al mondo principalmente per le sue poesie, è autrice anche di un romanzo, La campana di vetro, pubblicato però sotto pseudonimo. La sua è apparentemente una vita come quella di tutte le altre, ma perseguitata da una depressione clinica che dall’università alla morte non la lascerà mai. La Divulgatrice ci accompagna in questo pezzo attraverso la mente e la penna di questa poetessa.

Il poeta è la poesia: la nuova poesia confessionale

Sylvia Plath non è una semplice poetessa, è la fondatrice di un genere che prenderà piede presto in tutto il mondo: la poesia confessionale. Fino agli anni Cinquanta la poesia era considerata qualcosa di elevato, soltanto per una particolare élite. Dagli anni Cinquanta e Sessanta, invece, complice anche l’evoluzione del contesto storico e sociale, nasce uno stile poetico molto più introspettivo. Le poesie diventano infatti il frutto di esperienze personali, diventano una sorta di esorcismo del poeta. La vita del poeta diventa dunque la vera poesia; i sentimenti prendono il posto delle composte parole armoniche che fino ad allora avevano fatto da padrone. Plath è tra le prime poetesse ad aderire – sebbene implicitamente – al movimento, insieme alla collega Anne Sexton. Le sue poesie sono, infatti, coronate da esperienze direttamente personali e versi all’epoca al limite dello scandalo per i toni crudi ed espliciti.

La vita: un pendolo tra insoddisfazione e desiderio

Invidio quelle che hanno pensieri più profondi dei miei, che scrivono meglio, che disegnano meglio, che sciano meglio, che amano meglio, che vivono meglio, che sono più belle di me.
(S. Plath, Diari, Milano, Adelphi, 2004, p. 40)

La vita della poetessa è un continuo pendolo tra la vita e la morte, è una continua ricerca di un riconoscimento, un posto nel mondo, il perenne e dilaniante paragone con gli altri. Quasi tutti i suoi scritti giovanili mirano, infatti, all’ambizione di venire pubblicati sulle prestigiose riviste dell’epoca. Sono inoltre segnati da un profondo desiderio di soddisfare le aspettative che il proficuo mercato editoriale e industriale dell’epoca richiedeva. Sylvia Plath non era mai soddisfatta del suo lavoro, nonostante la dovizia maniacale con cui curava ogni dettaglio. Complice, forse, anche la società del dopoguerra, che incitava alla costante produttività, alla serialità e alla perenne ricerca della perfezione. Non solo nella scrittura ma anche nella vita, infatti, l’autrice cercava la stabilità e la normatività. Il matrimonio, l’atto sessuale e la vita coniugale sono altri aspetti che tormentano i suoi scritti. Quando approda allo Smith College grazie a una borsa di studio, la pressione diventa insostenibile. L’ansia di mantenere una media alta, di non perdere la borsa di studio, di approcciarsi al sesso opposto e di costruirsi una rete di amicizie portano Sylvia Plath alla prima crisi depressiva, che le verrà curata con l’elettroshock e diverse altre terapie. L’esperienza segnerà la poetessa a vita.

L’apoteosi del declino e la morte

Presto, presto la carne
che il severo sepolcro ha divorato
tornerà al suo posto su di me,
e sarò una donna sorridente.
Ho trent’anni soltanto.
E come i gatti ho nove volte per morire.
(S. Plath, Lady Lazarus, in Lady Lazarus e altre poesie, 1998, Milano, Mondadori)

Dopo la laurea e il matrimonio con il poeta britannico Ted Hughes, Plath sembra aver trovato un’apparente serenità: lavora all’università, ma in seguito decide di concentrarsi unicamente sulla scrittura, conscia del suo potenziale. In Inghilterra ottiene i primi riconoscimenti e le prime pubblicazioni; nel frattempo dà alla luce due figli. Il dramma degli anni universitari sembra soltanto un lontano ricordo. Il divorzio con il marito, nel 1962, contribuisce a cambiare la situazione. Sylvia Plath si ritrova ad accudire due figli, a perseguire la sua passione per la scrittura e al contempo a dover cercare un lavoro per mantenersi. La pressione e l’ansia da prestazione tornano a soffocare la poetessa, che decide di togliersi la vita la mattina dell’11 febbraio 1963: dopo aver sigillato la camera dei figli e aver preparato loro la colazione, infila la testa nel forno a gas e pone fine a una vita fatta di costanti delusioni, aspettative mancate e insoddisfazione. Di Sylvia Plath ci rimangono le poesie, molte delle quali postume e pubblicate dall’ex marito Hughes; e le sue parole, che ancora oggi, dopo sessant’anni scalfiscono come pietre nella nostra generazione. Sylvia Plath ha convissuto con l’ansia del futuro, le aspettative del mondo esterno che voleva tutte le giovani sposate ed eccellenti in ciò che facevano, il costante svilimento di fronte a qualcun altro inevitabilmente più bravo. Ma esiste anche una Sylvia che ride e scherza al mare. È la prova inconfutabile che la depressione non è soltanto cupezza e silenzi: è anche una ragazza con il rossetto rosso e un bikini bianco.