Andrea Bocca, Serpente: racconto su tessuto

Andrea Bocca, Serpente: racconto su tessuto

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Oggi la Guida è arrivata in Galleria – in ritardo come sua abitudine – in compagnia di una vecchia conoscenza: Andrea Bocca.
Molti di voi lo hanno conosciuto lo scorso luglio quando abbiamo pubblicato il suo primo racconto, Guardami; oggi esponiamo un’altra storia uscita dalla sua penna, Serpente.

Dimenticatevi delle atmosfere distopiche e del mondo fantascientifico di Guardami. Serpente è un breve racconto dalle tinte noir: un omicidio, una canotta sporca di sangue e un amore tra due ragazzi, Ariel – il protagonista – e Isaac, estintosi come un uragano.
Il serpente, che nei miti biblici ha tentato Adamo ed Eva con il frutto proibito, si è ora insinuato sotto la pelle e nella mente di Ariel costringendolo a compiere un gesto deplorevole? Un gesto perverso dettato forse dal bisogno di colmare un vuoto?

In una narrazione che si restringe a un’unica lunga scena, intervallata da un flashback che fa luce sulla relazione tra Ariel e Isaac, il protagonista si trova a fronteggiare le sue dipendenze e l’oscurità che avvolge le trentasei ore precedenti al suo risveglio.
Cos’è successo a Isaac, il ragazzo dagli occhi verdi, quasi gialli, da serpente?

Introduzione di Federico Brentaro.

Serpente

The eyes of others our prisons; their thoughts our cages.

Virginia Woolf

Aveva gli occhi diabolici di un serpente e non se ne rendeva nemmeno conto. Verdi, quasi gialli. Sì, sicuramente occhi da serpente, si ripeteva Ariel. Per una frazione di secondo era certo di averli visti dilatarsi al chiaro di luna; le pupille, non più due fessure asfissianti, si trasformavano, diventavano umane, mentre l’aria tutta intorno veniva tagliata da folli raffiche argentate. Subito dopo, il buio.

Sono le due di notte. Ariel è seduto sul divano. Davanti a lui, in bilico sul tavolino sbeccato, c’è mezzo bicchiere pieno. A fianco, una bottiglia di vodka vuota, diventata da qualche tempo la preferita fra tutte. È stato Thomas a indottrinarlo alla vodka, qualche anno prima a Londra, durante una di quelle loro esplorazioni notturne tra i neon e i fumi artificiali dei bunker a luci rosse nel quartiere di Soho. Ha iniziato con un bicchiere, poi è passato a mezza bottiglia, fino a ritrovarsi a riempire tre quarti di tazza al mattino, insieme al caffè nero e fumante. Da allora le bottiglie hanno cominciato a svuotarsi solamente a guardarle.
Nonostante sia notte inoltrata, fa caldo. È estate e Ariel sta grondando. Durante il giorno, il sole batte sul salotto senza dargli un attimo di tregua, riducendolo a nient’altro che un forno rovente, mai veramente in fiamme. Ariel non si è nemmeno cambiato. Porta gli stessi jeans larghi e sbiaditi della sera prima, la cintura di pitone gialla e la canottiera bianca a coste; gli stivali di pelle lucida, tutti macchiati e sbilenchi, lo fissano da vicino al caminetto. Occhi da serpente. Quei dannati occhi li vede ovunque ormai. Si moltiplicano sulle pareti, sulle mani, sull’enorme chiazza rossa che trasuda dalla canottiera, proprio lì, in mezzo al petto. Il sangue pompa come impazzito. Delira per un altro quarto d’ora, infine si addormenta bruscamente, gemendo, alla stregua di una bestia narcotizzata.
Si sveglia in un bagno di sudore, tutto appiccicaticcio e con la bocca secca. Secondo l’orologio sono le tre del pomeriggio, ma ormai non crede più neanche a quello. 
«Non mi fotti con quelle tue lancette del cazzo» blatera, come spesso gli accade, squadrando il vecchio pendolo inchiodato al muro. 
Il sole filtra dalle persiane beige tagliando in fasci di luce l’intera stanza. Il suo primo istinto è quello di alzarsi, ma appena tenta di mettersi a sedere, la parete di fronte slitta insieme a lui. Si è mosso troppo in fretta. Gli pulsa ogni muscolo, ogni singolo nervo del corpo. La faccia, in particolare, sembra sul punto di esplodere; immagina le sue cervella schizzare ovunque: sul soffitto, sul tappeto, sul camino, sui quadri. Un dripping alla Pollock.
«Ma cosa cazzo hai fatto» biascica.
In bocca sente ancora il gusto amaro della vodka impregnato di sigarette. Arrancando, si sposta in cucina e dopo aver ingurgitato un’intera bottiglia di acqua, gli servono all’incirca venti minuti per accorgersi dell’enorme macchia di sangue. L’odore ha cominciato a farsi sempre più pungente. Eppure, quando la vede non capisce subito, tanto che passa un tempo indefinito a chiedersi prima cosa sia e poi cosa ci faccia lì. È totalmente incantato, decisamente più confuso che spaventato. Non ricorda nulla, ma verifica più volte di non essersi ferito. Cos’ha fatto, chi ha visto? Non ricorda neppure quello. Vuoto. L’alcol gli annebbia ancora la testa – gli occhi viscidi della bestia puntati su di lui – e l’unica cosa a cui riesce a pensare è di volersi fare un bagno bollente. Prende un paio di aspirine e va in bagno. Dopo essersi spogliato, si distende nella gigantesca vasca di marmo rosa. E mentre l’acqua scende a fiotti, Ariel viene risucchiato indietro nel tempo. Il borbottio dell’acqua prende la forma di ricordi. Riesce a vedere Londra, Isaac, la loro piccola vasca scrostata. Si chiede che cosa stia facendo in quel momento.
«E con te che faccio?» dice Ariel fissando l’innegabile, o presunta, sospettata appallottolata sui pantaloni, lei e quella sua macchia rossa. Tutto quel sangue non è sicuramente mio, pensa.
Dovrebbe lavarla? Bruciarla? Forse tenerla? Decide che ci penserà più tardi. Si allunga fino ai pantaloni – i muscoli ancora tutti tesi –, prende una sigaretta e se l’accende. Le aspirine cominciano a fare effetto. Non trovando il posacenere si accontenta della vasca. Mentre il fumo si addensa nel bagno e la cenere scivola sulla superficie dell’acqua, la testa si fa meno pesante. È di nuovo a Londra e si ricorda del suo primo incontro con Isaac. Sono passati cinque anni. Ricorda la loro prima notte insieme e i loro corpi bagnati dalla luna. E poi il risveglio, la sensazione di pace nel vedere la sua schiena scoperta, un piede rimasto incustodito ai limiti del letto. E ancora, quello scatto rubato mentre lui dorme e le sue parole biascicate, camuffate dal sonno: give me a kiss. Ricordi di questo tipo sono normali; lo infestano da così tanto tempo che non ci fa quasi più caso.
Dopo il bagno si sente subito meglio, ma ha fame. Ancora nudo, si sposta in sala, accende la TV – un gesto spaventosamente automatico e incosciente – e va in cucina a prepararsi qualcosa da mangiare. Apre il frigo e vede che è vuoto, salvo per mezza bottiglia di vino, due uova e una zucchina. Decide di farseli bastare. In TV va in onda uno speciale.
«Ultime notizie sul caso Hill. Secondo l’autopsia, Isaac Hill, il giovane ventisettenne di nazionalità inglese trovato morto nella notte del 27 luglio scorso, avrebbe perso la vita a causa dei molteplici colpi infertigli sul petto con un’arma da taglio. Il movente è tutt’ora sconosciuto. La polizia è ancora sulle tracce del brutale omicida. Per il momento nessuna testimonianza è stata in grado di fornire informazioni utili sui fatti di quella notte.»
Isaac Hill. Non può essere, pensa Ariel. Si fionda in sala, la faccia appiccicata allo schermo, il battito ridotto a un rantolio. Il volto di Isaac è proprio lì, davanti a lui. Gira più canali, passa in rassegna qualsiasi notiziario; può esserci un errore. Ma la sua faccia rimane sempre lì, incorniciata da frasi a effetto: “Delitto del roseto” o “Giovane accoltellato: shock per la città”. Vacilla all’indietro; la foto di Isaac comincia a espandersi fino a sfondare lo schermo.

Era passata poco più di una settimana da quando si erano visti l’ultima volta, lui e Isaac. Era arrivato in Italia a metà luglio. 
«Una vacanza all’italiana» gli aveva detto sorridendo – quei fendenti verdi, bruciavano, lo fissavano – intanto che i bicchieri di birra si accumulavano sul bancone del bar. «Ma non sono da solo» aveva proseguito.
Ariel aveva sempre trovato verosimile l’idea di una divinità che dall’alto della sua alcova si ingegnasse, per malizia o inesperienza, a manomettere l’elaborato intreccio del fato, facendo piombare gli uomini nel caos.
«Si chiama Ariel» aveva continuato. 
Non Ezekiel, Joseph, Clarke, Tyler, no, Ariel. I fondi dei bicchieri ribollivano mentre il serpente prendeva forma proprio lì di fronte a lui. Avrebbe voluto gridare, scappare, dirgli che forse lo amava ancora, ma si era limitato a sorridere fin quando non si erano salutati. 
La sera stessa, Ariel si era rifugiato da Marta. Se ne stavano seduti sul balcone – le gambe appoggiate alla balaustra di cemento – a fumare e sbevacchiare i rimasugli di un vecchio vino lasciato ad aspettare per troppo tempo. 
«Intanto perché vi siete rivisti» stava dicendo Marta. 
«Credi che non avremmo dovuto?»
«Direi di no, soprattutto non dopo il modo in cui avete chiuso.»
Isaac e Ariel si erano lasciati già da un anno. Lui non faceva altro che accusarlo di opprimerlo, mentre Ariel invece parlava di tradimento e trascuratezza. L’uragano che li aveva uniti e alimentati per quattro anni era cessato nel giro di poche settimane, lasciandoli soli e naufraghi. Un giorno si guardarono e non si riconobbero più. Credettero di aver prosciugato tutto quello che avevano da offrirsi, trovandosi così esposti l’uno di fronte all’altro, incapaci di riconoscersi.
Con la coda dell’occhio, Ariel aveva visto le sue mani prendere vita, cambiare forma e colore: centinaia di squame luminescenti, verdastre, si facevano spazio tra la carne. Isaac gli era rimasto addosso e non aveva intenzione di andarsene.

Isaac, Isaac, Isaac. 
La TV continua ad andare. Dalla strada, il vociferare incessante dei grilli riempie ogni centimetro dell’appartamento. Il sole è sparito, cedendo il suo posto a un cielo carico di nuvole gonfie. Ariel è sdraiato a terra adesso, rivolto al soffitto; gli occhi pieni di lui. Può veramente aver fatto una cosa del genere? Verranno a cercarlo, è solo questione di tempo. Si alza e prende il telefono. Controlla chiamate e messaggi, mentre quella fottuta faccia continua ad appiccicarsi sulle pareti bianche come la più dozzinale carta da parati. La sera del 27 luglio ha chiamato Isaac ben due volte. A quel punto si lascia andare a una serie infinita di supposizioni. 
«Magari ci siamo visti, abbiamo parlato, forse abbiamo anche bevuto qualcosa. Anzi, sicuramente. Il suo nuovo giocattolino era lì? No, non l’avrebbe mai portato. Ok e dopo aver bevuto cos’è successo? Lui magari voleva fare due passi, io sicuramente ero troppo ubriaco, forse lo ero già ancor prima di arrivare.»
Gli ci vuole un po’, ma alla fine qualcosa comincia a riaffiorare: i giardini, l’odore di erba e di resina che sommerge l’aria calda. Basta. Per quanto si sforzi, tutto finisce lì, col rumore delle loro scarpe sul selciato, i petali di rosa calpestati. Quel sangue sulla canottiera dev’essere suo, a meno che non ci sia un altro cadavere mutilato in qualche angolo della città. Quindi è stato lui? La morte di per sé non lo spaventa. In compenso si è sempre chiesto se potesse veramente essere in grado di uccidere qualcuno, e la conclusione è sempre stata la stessa: no, non ci sarebbe riuscito. Soltanto l’idea lo nausea, proprio come in questo momento. Le probabilità di aver ucciso Isaac rappresentano quindi qualcosa di totalmente incompatibile e distante da lui, ma sono pur sempre delle probabilità. Da quell’ultima notte insieme fino ad adesso lo separano circa trentasei ore di totale vuoto, trentasei ore di deliranti febbri alcoliche e terrificanti allucinazioni.
«Potrei aver assistito all’omicidio» continua a bassa voce Ariel, trascinandosi avanti e indietro tra il salotto e la cucina. «In quel caso si spiegherebbe il sangue sulla canottiera. Ma certo! Il disperato tentativo di salvarlo, l’ultimo estremo saluto. Ma chi mai avrebbe potuto ucciderlo per poi lasciarmi vivo, un dannato testimone? Solamente un folle» conclude.
Da lontano i lampi cominciano a imbiancare il cielo. È in arrivo uno di quei potenti e spaventosi acquazzoni estivi, accompagnato dal lamento crescente delle sirene. Ariel si accende l’ennesima sigaretta – la vodka purtroppo è finita – e, con il cuore affondato e la testa spaesata, si mette alla finestra a osservare la tempesta avvicinarsi. Una folata di aria tiepida lo investe in pieno viso, togliendogli per un secondo il fiato. Nello stesso istante, un fulmine, sinuoso come un rettile, scende in picchiata fino a schiantarsi sul marciapiede. Occhi verdi, quasi gialli.
«Isaac…» mormora Ariel.

Illustrazione a cura di Caterina Cornale.