Andrea Bocca, Guardami: fantascienza su alluminio

Andrea Bocca, Guardami: fantascienza su alluminio

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Oggi è il primo giorno di lavoro della Guida alla Galleria Millon, e si è già integrata alla perfezione: come ogni membro dello staff, si è presentata in ritardo all’inaugurazione della nuova mostra di racconti inediti.

Il primo racconto pubblicato, un fantascientifico su lastra di alluminio, è Guardami di Andrea Bocca.
Guardami, nato dalla penna di Andrea durante le settimane di quarantena, è un racconto distopico ambientato in quella che sembra essere una cittadina americana futuristica, dove un’azienda, la Tech&Dream, sforna automi il cui unico scopo è quello di soddisfare i bisogni degli esseri umani; tra questi vi è Sophie, la moglie-cyborg di Michel, il protagonista del racconto.
Sulla città si abbattono continue tormente solari, il cui arrivo è scandito dell’urlo stridulo di una sirena; sarà una di queste tormente a cambiare per sempre l’esistenza dei due personaggi.
E sul finale, come un cerchio che si chiude alla perfezione, verrà svelato il mistero che si cela nel titolo del racconto.

Sebbene il riferimento a classici del genere – ad esempio La fabbrica delle mogli di Ira Levin – sia quasi inevitabile, la scintilla che ha accesso in Andrea il bisogno di scrivere è stata Il paradiso degli animali di David James Poissant. Proprio come i personaggi protagonisti dei racconti di Poissant, anche il Michel di Andrea Bocca tenta, sul finale, di rialzarsi e proseguire il suo cammino.
Di Michel il lettore non sa nulla. Il protagonista non viene descritto in alcun modo. Eppure, dalle sue azioni, dai suoi pensieri e dalle sue preoccupazioni emergono i tratti predominanti della sua personalità: un evidente machismo e un insano egoismo nascondono una mancata indulgenza.
E così anche in Guardami, come ad esempio accade in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick, è la macchina, l’automa Sophie, a possedere quel senso di umanità che, forse in un futuro molto prossimo, l’essere umano smarrirà.

Introduzione e scouting di Federico Brentaro.

Guardami

«Esco a prendere il latte» disse.
Sophie non rispose subito, o meglio, non rispose affatto. Si poteva quasi percepire l’affanno della sua piccola testolina nel tentativo di riuscire a elaborare quelle poche e semplici informazioni. Cinque lettere, nove sillabe; cosa poteva esserci di tanto complicato? Michel si era reso conto già da un po’ di tempo che Sophie si comportava in maniera strana, come fosse anestetizzata, vagamente assente.
Dopo una decina di secondi, il messaggio parve essere stato assimilato. A quel punto Sophie si girò e si limitò a fissarlo, accennando un sorrisetto svogliato, per poi tornarsene al suo centrino di capelli – un regalo per la suocera, diceva. Michel alzò gli occhi al cielo, prese chiavi e sigarette e uscì.
Forse è il caso di sentire Mr. Jones, pensò, e speriamo non sia nulla di grave.

Fuori il caldo rovente stava gradualmente diminuendo. Il sole smise di bruciare l’erba, di friggere cerchioni e asfalto. L’aria tornava respirabile.
Decise di non prendere la macchina. Dopotutto, il market si trovava a soli dieci minuti a piedi da casa. Pensò che gli avrebbe fatto bene fare due passi, che si stesse impigrendo a dismisura; e comunque, nel caso fosse arrivata un’altra ondata come quella di poco prima, l’idea di liquefarsi per strada non lo turbava così tanto. Certo era che ne avrebbe fatto volentieri a meno. 
L’estate era da poco cominciata ed erano già morte diverse persone, per lo più tossicodipendenti e mummie centenarie, forse qualche bambino, anche se ormai nessuno teneva più il conto. Eppure le regole erano così semplici: bastava prestare attenzione al suono delle sirene e cercare immediatamente riparo.

Le strade erano ancora calme, vuote. Michel vide in lontananza solo qualche procione in fin di vita, ancora fumante, che si trascinava da un lato all’altro dei marciapiedi cacciando urla cacofoniche.
«Credevo le avessero uccise tutte, quelle bestiacce» mormorò.
I procioni erano un vero problema lì da loro. Esistevano, infatti, vere e proprie colonie che proliferavano e assalivano, come orde impazzite di barbari, interi quartieri, facendo razzie e cavando gli occhi a qualsiasi malcapitato si trovassero davanti. Era perciò essenziale sterminarli tutti – sosteneva l’amministrazione comunale – nessuno escluso; e se non ci fossero riusciti loro, ci avrebbero pensato le tormente solari.
Fatto qualche altro metro, con la coda dell’occhio, intravide i fanali spalancati di Miss Maisel, la vicina che viveva nella casa rossa, spuntare furtivi dalla fessura tra le tende del salotto. Nel quartiere si diceva che fosse impazzita dopo che un branco di procioni aveva accecato suo figlio Derek, l’estate scorsa. Ora viveva reclusa in casa e ogni qualvolta si sentivano degli spari, tutti sapevano che Miss Maisel aveva vendicato – per l’ennesima volta – il figlioletto invalido. 
Michel cercò di evitare il suo sguardo e continuò a camminare. Il latte, il latte. L’idea lo ossessionava fin dalla sera prima, lo ossessionava a tal punto che si era ritrovato a delirare: s’immaginava nudo mentre sguazzava in un oceano infinito di buon latte fresco, ingurgitandone più che poteva, tra una bracciata e l’altra.

Era quasi arrivato, ma decise lo stesso di accendersi una sigaretta.
Sì, quella stessa sera avrebbe contattato Mr. Jones per prendere appuntamento in settimana, se possibile. Sophie, oltre alla sua totale apatia e mancanza comunicativa, aveva iniziato a fare sogni strani nell’ultimo mese. Michel era convinto che non potesse sognare e già questo era bastato a metterlo in allarme. D’altronde, quando era andato a comprarla alla Tech&Dream, era stato chiaro fin da subito: «Niente cose strane. Niente sogni, fantasie bizzarre, voglie frivole o simili. Mi basta che sia uno schianto, che abbia ricevuto un’educazione base e che sappia come gestire una casa.»
Il fatto che avesse iniziato a sognare non poteva promettere nulla di buono. Su tutto il resto era ineccepibile: bella formosa, bruna, abile di mani e incredibilmente educata, remissiva.
Eppure era successo. Il sogno era bene o male sempre lo stesso: lei che correva per strada, grondante di lacrime, alla ricerca di quello che sosteneva essere il suo bambino, finalmente ritornato a casa. «Il nostro bambino» bisbigliava Sophie in sogno.
Michel, in un primo momento, aveva pensato che forse la tragedia del piccolo Derek l’avesse scossa talmente tanto da spingerla a riprogrammarsi da sola, a sognare di diventare madre, lei con quel suo grembo sterile. Ora, invece, non ne era più così sicuro. In effetti, poteva essere semplicemente un difetto di fabbrica.

Buttato il mozzicone per strada, entrò nel piccolo market. Dentro l’aria era viziata, e a quanto poteva notare, Mr. Feel, il vecchio che gestiva la baracca, non se la passava tanto bene. Più passava il tempo e più assomigliava a una grossa e grassa talpa canuta, puzzolente e col fiato corto.
Dopo averlo salutato con un cenno veloce – se ne sarà accorto? –, Michel si diresse immediatamente al reparto frigo, ormai con la bava alla bocca. Sublime nettare bianco… Si chiese da quanto non pulisse la micetta di Sophie. Sebbene nell’ultimo periodo non avessero giocato molto, andava pulita una volta ogni due settimane, per evitare l’accumulo di possibili batteri e schifezze varie. L’aveva pulita? Non si ricordava. Promemoria: pulire la micetta; conferma, invio.
Adesso era davanti al reparto frigo e, preso dall’euforia, afferrò cinque galloni di latte. Chissà quanti ne servirebbero per riempire la vasca, pensò. Si ripromise di fare qualche ricerca non appena fosse tornato a casa.

Arrivato alla cassa per pagare, ne ebbe la conferma: Mr. Feel era proprio una vecchia talpa cicciona.
«Bene… sono dodici… dollari e cinque cents… Pedro» disse Mr. Feel bianco come un cencio, respirando a fatica.
Per la cronaca, Pedro era il giovane fattorino ecuadoregno da poco arrivato in città. Il grasso si era fatto spazio fin dentro al cervello del povero vecchietto.
Tuttavia, Michel doveva essere di buon umore quella mattina. Decise, infatti, di cogliere la palla al balzo: «Ecco a lei, tenga il resto. E comunque sono Mrs. Carson, non Pedro» gli rispose, parodiando la vocina stridula dell’ormai defunta Mrs. Carson, la donna che per anni aveva tentato di smantellare la Tech&Dream, inimicandosi mezza cittadina.  
Mr. Feel tentò di balbettare qualcosa, palesemente confuso, ma poi rinunciò.
All’improvviso la sirena cominciò a cacciare strilli assordanti. Era in arrivo un’altra ondata. Il suo primo pensiero fu Sophie. Aveva chiuso la porta a chiave? No. Le aveva perlomeno tolto le mani prima di uscire? No, dannazione. Era già capitato, infatti, che la trovasse a girovagare per le strade, ansimante e confusa. E proprio per questo cercava di evitare il più possibile di lasciarla sola, specialmente durante una tormenta. Tutta colpa del latte, si disse.
Vide il vecchio Mr. Feel trascinarsi davanti alla vetrina del negozio e cominciare a fischiettare quella che pareva essere Heaven Knows I’m Miserable Now degli Smiths. Rincoglionito ma con buon gusto, pensò Michel. La sirena aveva suonato tre colpi, il che significava che la tormenta non sarebbe durata che un paio di minuti.
Spero sia rimasta in casa, spero sia rimasta in casa, dev’essere rimasta in casa, continuava a ripetersi.

Per quanto distruttive e caotiche, le tormente possedevano quel fascino comune a tutti i fenomeni atmosferici incontrollabili: il cielo si squarciava e la luce, infuocata, rovente, prendeva il sopravvento su tutto. Qualcuno avrebbe potuto dipingerle come il concreto manifestarsi del Paradiso sulla terra, mentre altri, invece, come un vero e proprio Inferno.

Tornata la quiete, Michel si scaraventò fuori dal negozio. Nella fretta si dimenticò un gallone di latte. Meglio così, pensò, un peso in meno. Le strade erano ancora fumanti e nell’aria aleggiava un vento tiepido. Correre in quelle condizioni, con quel peso, lo stava sfinendo: la gola in fiamme, gli occhi appannati, madido di sudore dalla testa ai piedi.
Girò a sinistra, poi a destra, si fermò, poi ancora a sinistra. Era confuso. Ancora duecento metri e sarebbe arrivato. Sophie, Sophie, Sophie. E poi la vide. Lì sull’asfalto, a una decina di metri dal loro vialetto di casa, ribolliva una larga chiazza rosa pallido. Capì che era lei dall’aroma di silicone bruciato misto violetta che quella poltiglia rovente emanava.
Michel crollò. Scaraventò i galloni di latte per terra e, cominciando a dimenarsi come un folle, cacciò grida afone, imprecando contro un dio tutto suo. Nessuno sarebbe venuto ad aiutarlo, non ora. Con le taniche ormai sciolte sull’asfalto, il latte si riversò in un’enorme pozzanghera biancastra e schiumante che avanzò lentamente fino ad agglomerarsi alla povera Sophie.
Sembrò passare un’eternità. Poi a un tratto Michel si calmò; il viso contratto e paonazzo, tutto impiastricciato di lacrime, muco e sudore, cominciò a ricomporsi. Osservando meglio, si accorse dei due bulbi bianchi che galleggiavano in quello che rimaneva della sua donna. I suoi occhi. Come avevano fatto a salvarsi? Si inginocchiò e attese ancora qualche istante prima di raccoglierli. Occhi azzurro ghiaccio, freddi.

Quando quella sera Michel andò a letto, prima di addormentarsi, si girò verso il comodino di lei e li fissò. Gli occhi di Sophie erano lì che fluttuavano, guardandolo da dentro un barattolo. Provò a dire qualcosa di dolce, ma non ci riuscì.
Si girò, spense la luce e si perse nel sonno.

Illustrazione a cura di Sabrina Poderi.