Vivere, studiare, disegnare gli spazi urbani: intervista a Giada Peterle

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Noi di Galleria Millon abbiamo dedicato il mese di settembre all’esplorazione di quelle realtà dense ed eterogenee che sono le periferie. Per concludere la nostra panoramica abbiamo deciso di approfondire il complesso rapporto che lega i luoghi fisici della quotidianità agli spazi immaginari creati dalla letteratura. Ci faremo guidare lungo il percorso da Giada Peterle, ricercatrice e docente dell’Università di Padova, che studia le interconnessioni tra spazi concreti e forme narrative. Attraverso lo sguardo di questa personalità eclettica – geografa culturale, studiosa di fumetti e co-autrice di Quartieri, reporter, nonché tra i fondatori della rivista Oblò – ci lasceremo condurre tra scorci urbani, romanzi postmoderni e graphic novel.

Come è iniziato il tuo percorso di geografa culturale?

Mi sono laureata in Lettere. Ho individuato il mio ambito di ricerca, ossia la rappresentazione narrativa degli spazi urbani, quando ho scritto la tesi triennale e poi la tesi magistrale. Per quest’ultima ho deciso sin dall’inizio di adottare un approccio interdisciplinare. Il tema era la rappresentazione distopica delle città all’interno di alcuni romanzi postmoderni. Volevo provare a ragionare sul modo in cui le rappresentazioni letterarie potessero aiutarci a leggere la postmodernità, attraverso un’ottica differente. In quel momento mi sono avvicinata all’approccio critico della geografia letteraria e della geocritica, e piano piano alla geografia, umana e poi culturale, attraverso la sociologia, l’antropologia e tutta una serie di altre discipline.

La tua carriera si svolge principalmente all’interno dell’ambito accademico. Attualmente sei docente di Geografia letteraria all’Università di Padova. Di cosa si tratta?

Dal mio percorso di tesi è nato il progetto del dottorato, e poi quello per l’assegno di ricerca, conclusosi a dicembre scorso. Questo percorso sta alla base del programma che propongo al corso di Geografia letteraria. L’interdisciplinarità rimane indispensabile, perché mi aiuta a cogliere i differenti interessi e interrogativi dei miei studenti, che provengono da corsi di laurea diversi. Inoltre, mi permette di leggere lo spazio urbano concreto a partire da una serie di rappresentazioni, letterarie e in generale artistiche. Queste non rispecchiano semplicemente il modo in cui leggiamo e abitiamo lo spazio urbano, ma talvolta sono anche in grado di modificarne la nostra percezione. Ad esempio, le rappresentazioni fantascientifiche possono preannunciare le trasformazioni dello spazio nel futuro. Ma non è solo questo. È l’idea che la lettura del testo diventi uno strumento per prendere consapevolezza dello spazio reale che abitiamo e della nostra capacità di apportarvi delle modifiche. La Geografia letteraria presuppone che ci sia uno scambio, una relazione tra spazio reale e spazio finzionale, e che questa relazione sia bilaterale. Al centro di essa, ci siamo noi in quanto lettori e, attraverso l’interpretazione critica del testo e della realtà, siamo in grado di agire al suo interno in maniera consapevole.

Alcune tavole dal racconto Lines. Moving with stories of public transport in Turku, l’output geoGrafico del progetto di ricerca internazionale PUTSPACE a cui Giada Peterle ha partecipato tra gennaio e febbraio 2020 presso la Åbo Akademi di Turku in Finlandia. La storia, in fase di pubblicazione, è disponibile sul sito.

La narrativa entra nel tuo campo d’interesse attraverso le mappe che le storie sanno creare. Cosa significa approcciarsi alla lettura di autori come DeLillo, Auster, Celati attraverso lo sguardo di un geografo?

Solitamente scelgo gli autori di cui occuparmi perché mi piacciono le loro opere. È un approccio poco scientifico e molto viscerale, da lettrice. Alcuni testi mi hanno aperto prospettive sullo spazio urbano e sullo spazio in generale, e mi hanno consentito di osservare la realtà circostante attraverso una lente diversa. Come lettrice e come studiosa, mi dedico principalmente alla letteratura contemporanea, internazionale e italiana. Approcciarsi da geografi a questi testi significa per me non dimenticare di analizzarli con gli strumenti di una lettura critica, non strumentale. Rilevare non solo il modo in cui gli spazi vengono rappresentati all’interno delle descrizioni, ma anche come interagiscono con la trama, influenzando l’esistenza dei personaggi e determinando la forma della narrazione. Osservo il modo in cui i diversi autori giocano con i rapporti tra spazio e testo. A partire da ciò, provo a capire quali di questi aspetti sono utili per orientarsi all’interno dello spazio contemporaneo. Ad esempio, un autore come DeLillo in Cosmopolis ci racconta i paradossi dell’automobilismo, l’idea dell’immobilità pur essendo mobili. Auster, invece, diventa uno strumento per capire quante volte ci troviamo persi nello spazio, e come questa carenza di punti di riferimento diventi poi, oltre che una questione fisica, anche esistenziale. Celati l’ho conosciuto attraverso un amico geografo, quando ero al primo anno di dottorato. Insieme abbiamo provato a ripercorrere la mappa contenuta nell’ultimo dei diari di Verso la foce. Abbiamo usato il testo in modo strumentale, rileggendolo a trent’anni di distanza, per vedere cosa fosse cambiato e cosa rimasto, e come il testo aiuti a guidare il nostro sguardo. Ci sono diversi modi di leggere questi autori con uno sguardo geografico, io ne ho scelti alcuni.

Nei tuoi studi, il fumetto occupa una posizione particolare. Da cosa è motivato il tuo interesse?

Da piccola leggevo fumetti, ma poi crescendo li avevo completamente abbandonati. Finché non mi hanno regalato un fumetto di David B., un autore francese piuttosto noto. Non lo conoscevo, ma mi ha coinvolta in maniera inaspettata. Da allora ho ricominciato, durante l’università, a leggere molti fumetti, principalmente graphic novel. Mi ha catturata il rapporto tra parola e immagine che sta al centro di questo linguaggio, molto spesso legato alla gestione dello spazio. La pagina è uno spazio bianco; lo è anche in letteratura, ma nel caso del fumetto è limitato. Devi decidere cosa disegnare e come strutturare lo spazio; poi giri pagina e devi ricominciare. Questa mia passione mi ha spinta a esplorare la relazione tra spazio e fumetto durante il dottorato, stimolata dalla mia tutor, la professoressa Tania Rossetto, anche lei geografa culturale, che si occupa di visualità. Aveva colto che unire lo sguardo della geografia, quello della letteratura e quello del fumetto sarebbe stato qualcosa di innovativo, dal punto di vista della ricerca.

Una tavola dalla graphic novel atipica Quartieri, a cura di Giada Peterle e Adriano Cancellieri, uscita nel 2019 per Becco Giallo.

Ti approcci al fumetto non solo in quanto studiosa, ma anche in quanto autrice. Come sei arrivata a cimentarti con questo linguaggio?

Sono due le vie che mi hanno portata a produrre fumetti. Una è accademica, l’altra è più informale. Quest’ultima, che reputo la più importante, si connette a Oblò. Uno dei promotori della rivista è Claudio Calia. È uno dei principali graphic journalist italiani e da sempre collabora con Becco Giallo. Quando l’ho conosciuto, scrivevo per Lo spazio bianco, una rivista di recensioni di fumetti. Claudio collaborava con Sherwood Comix, iniziativa nata per occuparsi di fumetto underground e divenuta un punto di riferimento non soltanto a Padova, ma in generale nel Nord-Est. Grazie a lui, ho iniziato a collaborare con Becco Giallo, recensendo o presentando i loro autori. Probabilmente, se Becco Giallo non mi avesse conosciuta personalmente, non avrebbe accettato la proposta del libro Quartieri. Era la prima opera che pubblicavo come autrice ed è stato un po’ un salto nel vuoto, anche dal punto di vista del tipo di prodotto proposto.

La via accademica, invece, parte da alcune considerazioni. Nella lettura del testo, infatti, il ruolo attivo non sta solo nell’essere lettori ma anche nella capacità di ricomporre alcuni percorsi di lettura. E quindi ho pensato che avremmo potuto provare a comporre i testi. Avremmo potuto usare i meccanismi del rapporto tra testo e spazio per parlare di geografia, invece che leggere le opere semplicemente come oggetti. Quindi ho provato a fare un po’ di sperimentazioni, anche grazie ai corsi di scrittura creativa e quelli della triennale. Poi, dato che mi è sempre piaciuto disegnare, ho pensato: «Ok, proviamo a fare fumetti.» Così, durante il primo anno di dottorato, ho frequentato la Scuola Internazionale di Comics per il corso di sceneggiatura, e ho iniziato a lavorarci.

Nel 2019 è uscito Quartieri, un fumetto al quale hai lavorato come curatrice e illustratrice. Come è nato questo progetto?

Quartieri è nato da un incontro informale. Nel 2018 ho curato un progetto di ricerca geoartistica per una mostra d’arte diffusa a Padova. Si chiamava “Street Geography – disegnare città per un futuro sostenibile”, e prevedeva la collaborazione tra tre geografi e tre artisti. Ogni coppia avrebbe creato delle installazioni site specific. Quella di cui mi occupavo io, insieme a Fabio Roncato, era all’interno del quartiere Arcella. E visto che il tempo per fare ricerca era poco, ho iniziato a costruire una rete di persone e di associazioni che conoscevano il quartiere. Ho anche contattato altri ricercatori che se ne erano già occupati, tra cui Adriano Cancellieri, sociologo urbano e docente allo IUAV di Venezia. Davanti a una birra, Adriano e io ci siamo resi conto che a entrambi sarebbe piaciuto scrivere un fumetto sull’Arcella. A quel punto, abbiamo meditato l’idea pazza di costruire un graphic novel completamente dedicato al quartiere. Lo abbiamo proposto a Guido Ostanel, che è un amico, ma è anche editore per Becco Giallo. Lui c’ha risposto: «Ma voi siete pazzi! Non farete mai un graphic novel solo sull’Arcella, ma magari si potrebbe fare un’antologia.» Così abbiamo deciso di lavorare a un’antologia. E per fortuna è andata così.

La copertina di Quartieri.

Quartieri intreccia differenti realtà urbane, raccontando le storie di cinque città italiane, e diverse prospettive professionali. Di cosa si tratta?

Quartieri è il frutto di quell’iniziale suggerimento di Guido, ma non solo. Adriano aveva alle sue spalle Tracce urbane, un gruppo interdisciplinare di cui fanno parte urbanisti, antropologi, sociologi e architetti. Al suo interno abbiamo selezionato le persone che avrebbero potuto raccontare con cognizione di causa le storie ambientate nei quartieri periferici di altre quattro città [Milano, Bologna, Roma e Palermo, N.d.R.] oltre a Padova. Quindi abbiamo affiancato loro dei fumettisti. Gli studiosi dovevano preoccuparsi di veicolare i contenuti delle loro ricerche raccontandoli agli illustratori, per poi costruire insieme dei racconti.

Ogni gruppo ha lavorato in maniera autonoma; noi abbiamo dato delle linee guida iniziali, ma poi ciascuno ha potuto muoversi secondo le proprie necessità. Per questo l’antologia è piuttosto eclettica, non soltanto per gli stili dei fumettisti, ma anche per il modo in cui vengono raccontate le storie. Nel caso mio e di Adriano, è poi venuta la ricerca. Indagine e racconto sono nati e cresciuti insieme. Ne parliamo nel libro: la mappa che si va componendo – che è al centro del nostro fumetto – è effettivamente quello che ci è successo. Abbiamo dovuto aggiustare le nostre idee alla realtà incontrata, ma è andato tutto liscio. La fortuna dei principianti, probabilmente.

Perché avete scelto proprio delle periferie?

Ci sono due ragioni. La prima è che volevamo parlare dell’Arcella, perché è un quartiere a cui siamo affezionati, in cui lavoriamo e viviamo, o abbiamo vissuto. Siamo partiti da un caso studio, e da questo abbiamo individuato il tipo di spazio da considerare. Non è quindi casuale che tutti questi gruppi di ricerca lavorassero in quartieri considerati periferici – non dal punto di vista spaziale, ma da quello delle condizioni di marginalità di molti dei loro abitanti.

In secondo luogo, ci siamo resi conto che all’interno di questi quartieri è possibile vedere i frammenti di quella che è la città oggi, con le sue contraddizioni, e insieme alcuni semi di quella che potrebbe essere la città del futuro. Contraddizioni, come le dicotomie centro-periferia che a livello globale si ripetono su scale diverse, o la questione dell’emarginazione sociale, economica, linguistica, culturale, religiosa. Essendo i luoghi in cui queste contraddizioni sono visibili e determinano le difficoltà quotidiane, sono anche i luoghi in cui si deve per forza provare a trovare soluzioni. In questo senso, uno dei ruoli principali è quello delle associazioni e delle reti informali, come l’ormai sgomberata Casetta Berta. Sono realtà mobili, e magari non ci saranno tra qualche anno, ma tengono vivi questi quartieri, provando a lavorare su una società che sia culturale e multiculturale.

Alcune tavole da Quartieri, tratte dalla storia disegnata da Giada Peterle e ambientata all’Arcella, il quartiere di Padova. Le associazioni e le reti informali lavorano per tenere vive le periferie.

A quali progetti stai lavorando?

Attualmente sono docente a contratto di Geografia letteraria e quest’anno terrò un nuovo corso per la laurea magistrale in Scienze per il paesaggio dal titolo Comunicazione creativa e landscape storytelling. Inoltre, sto lavorando a un libro per Becco Giallo. Non è un vero e proprio fumetto, sarà più vicino a un libro illustrato, ma non posso dare anticipazioni. Ha sempre a che fare con la geografia e per la sua realizzazione ho coinvolto il Museo di Geografia dell’Università di Padova e l’AIIG Veneto. E poi sto scrivendo un libro accademico in lingua inglese sul fare fumetti come metodo di ricerca. Al momento sono proiettata sulla ricerca accademica e su alcune collaborazioni creative, nella speranza di trovare un po’ di stabilità.

Illustrazioni a cura di Martina Nenna.