Riflessioni oltre la Necropoli di Boris Pahor: la travagliata storia dei triestini sloveni e italiani

Reading Time: 6 minutes

Necropoli è l’opera più conosciuta di Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena, scomparso il 30 maggio di quest’anno all’età di quasi centodieci anni. Il libro, che è una raccolta di memorie, è stato tradotto in più di venti lingue ed è annoverato tra le più valide testimonianze riguardo alla vita da prigioniero politico nei campi di concentramento nazisti.

Forse, pensando alla letteratura dedicata a questo argomento, il nome di Boris Pahor non vi suonerà familiare come quello di Anne Frank o di Primo Levi, ma nella sua città, che è anche la mia, Pahor è stato, è e resterà un simbolo della comunità – in particolare di quella slovena – e della sua storia.

Di solito preferisco non scrivere in prima persona, ma premetto che ciò che intendo offrire non è un’esposizione didascalica del contenuto di Necropoli né un’analisi o un commento sull’opera; ne esistono sicuramente di ben più eminenti. Il mio interesse, piuttosto, è quello di condividere una serie di riflessioni sorte nel corso della lettura del memoir.

Primo approccio: perplessità iniziali

Innanzitutto, prima ancora di iniziare il libro, mi sento “in svantaggio”, in un certo senso. I motivi sono principalmente due e sono collegati: il primo è che sono nata e cresciuta a Trieste, ma ancora non ho mai letto un’opera di Pahor; il secondo è che per farlo, ora che la sua morte mi ha indotto a non attendere oltre, devo affidarmi a una traduzione.

Che problema c’è, direte voi. Non sempre è necessario essere ferrati su tutta la produzione letteraria dei nostri concittadini, seppur famosi, e una vasta parte dei libri che leggiamo sono tradotti. Certo, ma è raro che i due problemi sorgano insieme.

Boris Pahor è triestino, come me, ma non condividiamo la stessa madrelingua: l’intera sua produzione originale è in sloveno e di diverse opere ancora non esiste la traduzione in italiano. Lo stesso Necropoli è stato pubblicato dall’autore nel 1967, mentre la versione italiana risale ai primi anni Duemila.

A quel tempo frequentavo il liceo a Trieste; leggevo e studiavo le opere di Umberto Saba e Italo Svevo – anche loro miei illustri concittadini –, ma nessuno mi ha mai nemmeno suggerito di prendere in mano un libro di Boris Pahor. Ed ecco che i due problemi si intersecano.

Un po’ di storia: Trieste contro Trieste

Per capire dove voglio andare a parare è necessario fornire un minimo contesto storico, che è comunque strettamente intrecciato alla storia dell’autore e dei luoghi in cui è vissuto.

Boris Pahor nasce nel 1913, quando Trieste fa ancora parte dell’Impero austroungarico e la commistione linguistica e culturale è tratto peculiare della città: dai tempi di Maria Teresa, infatti, austriaci, serbi, greci, italiani e sloveni – cito i principali – passeggiano per le stesse strade e condividono gli stessi luoghi. La comunità slovena, di cui Pahor fa parte, è grande, viva e attiva, avendo da sempre abitato queste zone.

Al termine della Prima guerra mondiale, però, Trieste viene annessa all’Italia e lo spazio per le diverse culture sembra non esserci più. Il fascismo aleggia nell’aria e prende forma sempre più concreta. Nel 1920, in pieno centro città, viene dato alle fiamme il Narodni dom (“casa del popolo”), palazzo rappresentativo degli sloveni triestini. Pahor è solo un bambino, ma partecipa al tragico evento, che lo lascia segnato per sempre.

L’episodio, al quale recentemente è stata dedicata anche una graphic novel, non è che un preludio al fascismo vero e proprio: di lì a poco, la lingua slovena viene proibita, i cognomi tipici della zona vengono tradotti – come se si potesse tradurre un cognome! – e gli sloveni triestini sono costretti a diventare italiani.

L’orrore del campo: separazione totale e sopravvivenza

Naturalmente, negli anni si sviluppano anche delle forme di resistenza a tutto ciò e il giovane Pahor vi aderisce. L’attivismo politico come antifascista – per giunta sloveno – gli costa l’arresto e, nel 1944, la deportazione a Dachau. Da qui, essendo la guerra sul finire e l’avanzata degli Alleati imminente, viene trasferito in diversi campi di concentramento: Natzweiler-Struthof, Harzungen e Bergen-Belsen.

Riesce a sopravvivere soprattutto grazie a un compagno, che lo arruola tra le fila degli infermieri del campo. A sua volta, Pahor cerca di sfruttare la sua posizione per salvare dalla morte quanti più prigionieri possibile. Ma il senso di separazione dalla comunità degli altri esseri umani e, di conseguenza, dalla vita nel suo senso più ampio è ciò che maggiormente emerge dalle memorie dello scrittore: 

Da dove eravamo dominavamo la valle stretta e fitta di boschi; ma in noi non si allargavano quelle sensazioni che normalmente si provano ammirando il panorama sottostante dall’alto di un monte. Non eravamo stati rinchiusi lassù per sperimentare insoliti punti di vista sugli insediamenti umani, ma perché potessimo renderci conto con chiarezza di quanto fosse assoluta la nostra distanza da quegli insediamenti.

B. Pahor, Necropoli, Roma, Fazi Editore, 2008, p. 75

Non a caso il titolo: Necropoli, città dei morti, in netto contrasto con il fortissimo attaccamento all’esistenza dell’autore.

[…] credo che fin dal primo contatto con la realtà del campo di concentramento tutta la mia struttura spirituale fosse sprofondata in una nebbia stagnante, che filtrava ogni singolo fatto togliendo efficacia alla sua forza espressiva.

Ivi, p. 194

Tra le pagine del memoir, Pahor accenna spesso a questa sorta di meccanismo di difesa che gli permette, in modo quasi inconscio, di proteggere e conservare la vitalità. Sicuramente un suo tratto peculiare: ad agosto avrebbe compiuto centonove anni.

Spunto di riflessione: siamo così diversi?

Ora, per riallacciarmi al discorso iniziale, c’è un ricordo particolare di Necropoli che mi ha colpito nel profondo. Si tratta del momento in cui, in una baracca di Dachau, Pahor incontra Gabriele, un suo concittadino. Non lo ha mai visto prima, ma è capace di riconoscerlo:

Nei lineamenti dei triestini esistono certe particolarità, difficilmente definibili, che riescono a richiamarci alla mente, quando siamo lontani dalla nostra città, il profilo di un angolo di strada, una piazza o una vecchia insegna sopra una latteria. È come se l’ambiente in cui si è nati avesse impresso la propria immagine su un volto […].

Ivi, p. 47

Quell’uomo è Gabriele Foschiatti, antifascista italiano e promotore di idee all’avanguardia per quel che riguarda la tutela delle minoranze, tra le altre cose; ma Pahor non lo sa, al tempo del loro incontro. Forse perché riconosce in lui quell’angolo di strada di casa o forse perché, nella necropoli, si tratta di un uomo smarrito come un altro, Pahor lo aiuta a comunicare con i suoi cari a Trieste.

Resta diffidente, però, quando il compagno di sventure cerca di condividere con lui il suo credo politico:

[…] mentre lo ascoltavo, quella sua apertura mi risultava strana, e pensavo davvero che quelle espressioni di fratellanza fossero figlie dell’ambiente in cui venivano pronunciate […], mi sembrava fuori luogo che […] un mio concittadino appartenente all’élite italiana parlasse per la prima volta con un tono di umanità proprio qui dove tutto ciò che è umano veniva negato […].

Ivi, p. 48-49

Ritorno al presente: strascichi di un passato difficile

Torno di nuovo a me, che non ho nulla a che fare con situazioni di questo tipo, essendo nata quasi ottant’anni dopo i loro protagonisti. Se avessi dovuto figurare nella vicenda, però, sarei stata Gabriele Foschiatti – non tanto per il pensiero illuminato quanto per il fatto di appartenere alla parte italiana della barricata. La questione mi ha colpito soprattutto perché conosco e frequento abitualmente persone che avrebbero potuto essere Boris Pahor e stare dall’altro lato.

Fatta eccezione per i casi estremi, si può dire che la linea che ci separava si è assottigliata fino quasi a sparire. Certo, sarei ipocrita a non ammettere che, fino agli anni del liceo – quando cadeva per sempre il confine tra Italia e Slovenia e Necropoli veniva tradotto in italiano – qualche strascico della travagliata convivenza l’ho vissuto io stessa. Ai miei tempi, però, credo che, più che di un sentimento vero e proprio, già si trattasse di un retaggio storico e linguistico.

Ancora oggi mi capita di sentire persone più anziane parlare di “noi” e “loro”, per esempio, ma mi rendo conto che il più delle volte non c’è malizia in questo tipo di definizione. Se interrogo me stessa a proposito del momento in cui ho smesso di pensare alle due comunità come separate, non so darmi una risposta precisa: la cosa è semplicemente scemata e basta. Nella mia personale coscienza, era un concetto inconsistente.

Conclusione: sforzi per un lieto fine

Per quel che mi riguarda, c’è solo un elemento che ancora fa da ostacolo al totale superamento della diversità. È quello a cui ho accennato in apertura, quando ho dichiarato di sentirmi “in svantaggio” rispetto all’opera del mio concittadino Boris Pahor: la lingua.

Lui sarebbe stato capace di scrivere Necropoli in italiano, ma io non posso leggerlo in sloveno, perché non lo conosco. A causa della storia, che per molto tempo ha lasciato il segno su Trieste e i suoi abitanti, è solo da pochissimo tempo che nelle scuole italiane si può scegliere di studiare lo sloveno come lingua straniera. Certo, non è come essere bilingui, ma è un passo avanti.

Inoltre, sarebbe utile se agli studenti venisse offerta una preparazione in merito anche dal punto di vista storico e culturale, poiché non si tratta di scoprire un popolo diverso, ma semplicemente di approfondire la conoscenza del proprio. In fondo, passeggiamo tutti per le stesse strade e condividiamo gli stessi luoghi, un po’ come centodieci anni fa.

La storia che scorre da un capo all’altro del mio discorso è travagliata, a tratti orribile, ma sembra volgere verso un lieto fine. Boris Pahor l’ha vissuta proprio tutta e, il 28 marzo di quest’anno, ha potuto anche assistere alla riconsegna, da parte del presidente Mattarella, del Narodni dom alla comunità slovena. Un gesto dal grande valore simbolico, così come un simbolo è e resterà l’autore di Necropoli, un libro che, più di tanti altri, mi ha fatto riflettere.