La “legge asciutta”: il proibizionismo russo che fece dell’alcol un simbolo dell’identità nazionale

La “legge asciutta”: il proibizionismo russo che fece dell’alcol un simbolo dell’identità nazionale

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Quello del sukhoi zakon non è un tema da trattarsi senza avere a fianco un bicchiere di vino e Party Like a Russian come sottofondo musicale. Sì, perché toccò proprio ai russi di subire per ben due volte, nel corso del Novecento, gli effetti di quella che venne ribattezzata la “legge asciutta”.

Munita di calice e cuffiette, la Divulgatrice non vede l’ora di riportarvi in Russia per scoprire come il suo popolo sia riuscito – come sempre – a fronteggiare le avversità della storia, anche in fatto di alcolici e proibizionismo.

La storia: la “legge asciutta” dello zar

La prima “legge asciutta” risale al 1914, quando lo zar decretò proibita la produzione e la vendita di qualsiasi alcolico. Il massiccio consumo specialmente di vodka annebbiava il popolo russo e lo distraeva dall’incombenza più prossima, quella di entrare in guerra.

Dal punto di vista economico fu una mossa più che azzardata, poiché un terzo del bilancio statale derivava dalla vendita della suddetta bevanda. Sobri e, di conseguenza, finalmente produttivi, i russi dovettero ammettere che, loro malgrado, senza alcol si stava meglio.

Potevano affermarlo in ogni ambito della vita, o quasi: a matrimoni e funerali, per esempio, gli invitati si ritrovavano spesso a non sapere che fare, non potendo bere. Gli scienziati si lamentavano di non avere più cadaveri da studiare; ma guardando il quadro più generale, lo Stato poté dirsi fautore di una vera e propria rinascita dei villaggi e dei loro abitanti.

La resistenza bolscevica: apparenza e realtà

Gli effetti positivi della “legge asciutta” furono talmente apprezzati che, a seguito della Rivoluzione del 1917, i bolscevichi scelsero di continuare a tenerla in vigore. Gli anni passavano e i russi non bevevano, o almeno così pareva.

È tipicamente sovietico far vedere al mondo solo ciò che conviene. Degli assalti del popolo alle taverne chiuse, quindi, della disoccupazione conseguente allo smantellamento delle distillerie e della dilagante tossicodipendenza, nessuno seppe mai nulla.

La verità è che fino al 1925, anno in cui venne abolita – non perché la situazione fosse diventata insostenibile, badate bene, ma per “favorire un rilancio economico del Paese” –, le vittime della “legge asciutta” furono centinaia di migliaia.
Non si moriva più a causa dell’alcol, ma in suo nome.

Samogon: gli alcolici fai-da-te

Coloro che non erano disposti a sacrificarsi per la causa dovettero ingegnarsi con soluzioni alternative: un’altra arte, quella di arrangiarsi, in cui i russi non sono secondi a nessuno. 

Presero così a circolare i cosiddetti samogon, i fratelli alcolici dei samizdat, le pubblicazioni letterarie clandestine che eludevano la censura. I samogon aggiravano la “legge asciutta”, invece, ed erano gli alcolici prodotti da sé (sam significa “da solo”) con più o meno qualsiasi materiale disponibile che fosse anche distillabile: barbabietole, piante varie, segatura.

I più impazienti passarono a metodi ancora più estremi, arrivando a consumare regolarmente vernice per mobili, lucido da scarpe, profumo e tutto ciò che ancora si poteva comprare nei negozi che avesse a che fare con l’alcol.

La cosa curiosa è che il proibizionismo, in Russia, durò per ben undici anni e in tutto questo tempo le abitudini più strane e malsane ebbero modo di radicarsi anche più a fondo delle precedenti.

I russi e gli alcolici: una questione culturale

Nel 1985, Gorbačëv volle rispolverare la “legge asciutta”, dal momento che la piaga dell’alcolismo era tutt’altro che svanita. Lo fece in maniera più blanda rispetto ai suoi predecessori, ma il popolo non gradì il provvedimento, esattamente come non l’aveva gradito settant’anni prima. Anche lui fu costretto ad abolirla poco dopo per ragioni economiche… e perché il problema del mercato nero cominciava a superare quello dell’alcolismo.

[…] se si faceva vedere per strada lo tiravano sotto con la macchina. Una cosa che si ricordano tutti, in Russia, della politica di Gorbačëv, è la sua campagna contro l’uso dell’alcool. Tutti abbiam sentito parlare del fatto che gli eschimesi hanno, adesso non so, diciamo quaranta modi diversi di dire Bianco. Ecco, i russi hanno quaranta verbi diversi per dire “ubriacarsi” e per un popolo così, vietargli di bere…

P. Nori in V. Erofeev, Mosca-Petuškì. Poema ferroviario, Macerata, Quodlibet, 2014, p. 12.

Il testo da cui è tratta la citazione è un fulgido esempio del ruolo giocato dall’alcol nella vita di un russo. Naturalmente non di un russo qualsiasi, ma di Venedikt Erofeev, uno degli esponenti più borderline della letteratura sovietica. Non è un caso che il suo Mosca-Petuškì. Poema ferroviario (1973) circolò per più di vent’anni in forma di samizdat.

Il “ciclone” di Erofeev: filosofia dell’alcolismo estremo

Il romanzo di Erofeev è la storia di una sbronza colossale vissuta in prima persona dall’autore, protagonista di un viaggio in treno da Mosca alla cittadina di Petuškì, appunto. “Ciclone” è la parola con cui il traduttore ha pensato di rendere una certa forma di stato di ebbrezza, a cui il romanzo è dedicato come una sorta di inno.

Se alla sera, con l’ubriachezza, la natura ci ha dato qualcosa di più, al mattino quel qualcosa lei ce lo toglie, con precisione matematica. Se alla sera, con il ciclone, lei ha avuto uno slancio verso l’ideale, ecco, al mattino con l’anticiclone arriva uno slancio verso l’antideale, e se per caso resta l’idea, arriverà l’antislancio.

V. Erofeev, Mosca-Petuškì. Poema ferroviario, Macerata, Quodlibet, 2014, p. 118.

Questo è solo un esempio dell’analisi profonda ed estremamente lucida di un atto, quello del bere a più non posso, che, di per sé, di profondo e lucido non ha nulla. Eppure Erofeev è capace di costruirci attorno una vera e propria filosofia. Gli stadi dell’ubriachezza sono considerati a uno a uno, così come i metodi per raggiungerli. L’autore dà anche dei consigli su come preparare degli ottimi cocktail a base di birra e acqua di colonia.

Lo zapoj di Limonov: ubriacarsi e/o vivere

Anche Emmanuel Carrère racconta di un modo di sbronzarsi particolare, che è tipicamente russo: lo zapoj.

Zapoj è una cosa seria, non la sbronza di una sera […]. Zapoj vuol dire restare ubriachi per parecchi giorni senza smaltire la sbornia, vagare da un posto all’altro, salire su treni che non si sa dove vanno, confidare i segreti più intimi a persone incontrate per caso, dimenticare tutto ciò che si è detto e fatto: una specie di trip.

E. Carrère, Limonov, Milano, Adelphi, 2012, p. 46.

Ne parla nell’opera dedicata a un altro personaggio piuttosto scomodo della letteratura e della politica russe, Eduard Limonov. Il fondatore del partito nazionalbolscevico conosceva bene l’opera di Erofeev e la disprezzava, forse perché non volle mai spingersi tanto oltre dal punto di vista alcolico: 

«“Quando sono nato, in un paesino sovietico di poveri operai ucraini, non avevo alcuna chance. Sarei morto di vodka e disperazione lavorando in qualche fabbrica”. E invece, una lunga cavalcata sempre controcorrente. I circoli letterari di Mosca, i primi romanzi, la fuga in America e la scoperta che quello non era proprio un mondo ideale.»

N. Lombardozzi, Eduard Limonov: io, l’intellettuale bolscevico, che odia Putin e Gorbaciov, «La Repubblica», 2 novembre 2012.

Sull’importanza dell’alcol per l’identità russa

La fine che Limonov si vanta di non aver fatto è quella che si intuisce essere la sorte di Erofeev. Per quanto Limonov, grazie a Carrère, sia annoverato dagli europei nell’Olimpo degli eroi sovietici, forse Erofeev raggiunge da solo l’apice del successo nella sua stessa patria.

Non si tratta di parlare dei russi come di ubriaconi e basta, ma è anche difficile prescindere da una visione di questo popolo separata dall’alcol. Sarebbe un po’ come parlare degli italiani senza parlare della pastasciutta.

Senz’altro nell’opera di Erofeev vi è un elemento di denuncia – il capotreno che preferisce che i passeggeri non abbiano il biglietto, in modo che gli versino da bere piuttosto che pagare la multa, per esempio –, ma esso rispecchia un elemento di realtà tale da far comprendere quanto assurdo sia stato, per qualsiasi governo, proibire al popolo di consumare alcolici.

Così come tante cose nella storia russa, anche la “legge asciutta” – il proibizionismo – si è rivelata contraddittoria: non ha fatto altro che sottolineare l’importanza del consumo di alcol come un tratto distintivo dell’identità del popolo.

– […] mi stupisce la facilità con cui passa le frontiere…
– E cosa c’è di così sorprendente? E poi, in che senso le frontiere? La frontiera serve per non confondersi di nazione. Da noi, per esempio, c’è una guardia di frontiera che sa, di sicuro, che la frontiera non è una finzione e non è un emblema, perché da una parte della frontiera parlano in russo e bevono di più, e dall’altra parte bevono di meno e non parlano in russo…

V. Erofeev, Mosca-Petuškì. Poema ferroviario, Macerata, Quodlibet, 2014, p. 141.

 

Illustrazione a cura di Francesca Pisano.