Evolvere con stile: La regina degli scacchi

Evolvere con stile: La regina degli scacchi

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La regina degli scacchi è un’amatissima serie Netflix del 2020. Numerosi pregi vengono attribuiti a questo prodotto visivo: si dice che abbia riportato in auge gli scacchi e che abbia consolidato definitivamente la popolarità della giovane attrice Anya Taylor-Joy. Oltretutto, dà vita a un progetto del defunto Heath Ledger, che avrebbe dovuto prendere posto alla regia di un lungometraggio omonimo.

Il regista Scott Frank, ha saputo fare onore al progetto, valorizzando l’ottima prova di Taylor-Joy nei panni della protagonista, grazie alla cura del personaggio e, soprattutto, della sua evoluzione attraverso la storia. Il lavoro del regista e dell’attrice è stato affiancato da un attento studio della costumista Gabriele Binder. Gli outfit di Beth non sono meri accessori scenografici per accompagnarci nell’epoca dei fatti (tra gli anni Cinquanta e Sessanta). Al contrario, sono utilizzati come strumenti narrativi essenziali per raccontare l’evoluzione della scacchista attraverso ostacoli e dipendenze.

Attenzione: si consiglia vivamente la lettura di questo articolo dopo aver visto la serie TV! Se gli spoiler non vi spaventano, seguiteci per conoscere meglio Beth Harmon e la vita di una giovane donna americana negli anni Sessanta.

Dark glasses. Fonte Pinterest.

Prima tappa: la perdita della madre

Beth è la tipica protagonista del Bildungsroman: il suo personaggio deve affrontare un percorso di crescita irto di ostacoli. Le difficoltà saranno funzionali alla creazione di un arco narrativo interessante, e non solo. Infatti, la porteranno a trasformarsi in un’adulta molto diversa dalla ragazzina che viene presentata allo spettatore nel primo episodio. Ciò che di lei colpisce immediatamente sono i capelli rossi, stretti a coda di cavallo, e il vestitino verde pastello.

Abiti e colori costituiscono indizi visivi sul personaggio. In questa fase della storia, tali elementi tenderebbero a passare in secondo piano, se la piccola ci fornisse molte informazioni su di sé. Al contrario, quella che si presenta all’orfanotrofio è una Beth sotto shock, sconsolata e silenziosa, perciò lo spettatore deve estrapolare informazioni dal suo aspetto. La ragazzina assomiglia a sua madre, persona di straordinaria intelligenza matematica, schiacciata dal maschilismo del suo tempo, convinta che la forza morale risieda nel saper stare soli. Non si conosce neppure il suo nome, ma s’intuisce che è testarda, caratteristica comunemente percepita nei personaggi rossi di capelli. Binder stessa conferma l’importanza di questo dettaglio.

Gli spettatori non sono destinati a conoscerla. Infatti, malata di depressione, decide di suicidarsi provocando un incidente stradale e Beth, sopravvissuta, non dispone di alternative diverse dall’orfanotrofio. Sebbene il luogo in sé non sia cupo, la solitudine della piccola Beth è palpabile ed è simboleggiata dalla perdita degli elementi che la distinguevano dalle altre bambine. Infatti, sebbene lì l’educazione non sia oppressiva, rimane inopportuna e severa: le orfane devono portare lo stesso caschetto di capelli con la frangia e gli stessi vestiti grigi, non possono tenere effetti personali. Nel caso di Beth, ciò che viene eliminato è il colore tipicamente assegnato all’infanzia: il verde.

L’orfanotrofio costituisce un punto di svolta decisivo nella vita della bimba, sia in bene che in male. Da un lato, la porta in contatto con persone della sua età permettendole di intrecciare alcuni legami che si riveleranno per lei essenziali, le fa scoprire il talento e la passione per gli scacchi.

D’altro canto, Beth comincia ad assuefarsi alle pillole calmanti che vengono somministrate con leggerezza alle orfane. È costretta ad accettare la perdita della propria personalità, proprio come perde memoria della madre. La combinazione di questi fattori – dipendenza e perdita d’identità – le impedirà di individuare prontamente i numerosi affetti positivi che sarà in grado di crearsi lungo l’arco della gioventù. È proprio il senso di solitudine a seminare in lei la dipendenza da alcool e droghe, dal gioco e… dallo shopping compulsivo.

Seconda tappa: evitare lo specchio negli occhi degli altri

Beth non trova stimoli nella vita dell’orfanotrofio ma, contro ogni previsione, una coppia di mezza età si dimostra desiderosa di adottarla, portandola con sé nella loro casetta di provincia.

Ora, i coniugi Wheatley sono gentili, ma non hanno davvero voglia di fare da genitori a una taciturna nerd degli scacchi. Soprattutto, impongono alla ragazza la loro visione di un’orfana, imponendole abiti cerulei – colore che gli anglofoni associano alla tristezza (the blue) – e rinfacciandole il denaro speso per lei. Beth collabora come può con la situazione. Affronta la scuola superiore, le false amicizie e le carenze di denaro.

Gli scacchi si riveleranno essere la soluzione perfetta. Beth comincia a partecipare a tornei di paese, grazie all’aiuto economico dell’inserviente dell’orfanotrofio ed ex insegnante di scacchi. Con il premio in denaro della vincita capisce che l’indipendenza economica si trova a portata di… scacco matto!

Beth la scacchista e il cambiamento di prospettive: guadagnarsi un ruolo

Quando il signor Wheatley abbandona la famiglia, la signora Wheatley sembra perduta: non ha un lavoro, l’alcolismo le sembra l’unica strada, per di più si trova tra i piedi una figlia non sua. In realtà, Beth si rivela la sua fortuna.

In questo periodo, la ragazza si sta affacciando su un mondo completamente nuovo. Partecipare ai tornei di scacchi significa affermare le proprie decisioni, guadagnarsi un’indipendenza economica e non solo. Beth comincia a relazionarsi con nuovi amici e potenziali amanti, che per lei costituiscono un’attrattiva oltre che un ostacolo dovuto ai pregiudizi verso le donne. Il suo modo di pensare a se stessa cambia, soprattutto perché il suo essere femmina le viene continuamente rinfacciato: il mondo degli scacchi è un mondo di uomini. Gli articoli che si concentrato sul sesso della giocatrice invece che raccontarne la bravura, i pregiudizi da sconfessare, gli sguardi che la disapprovano e allo stesso tempo la soppesano, sono tutti elementi che pungolano Beth, spingendola ad affinare la propria femminilità parallelamente alle abilità scacchistiche.

I soldi che guadagna vincendo un torneo dopo l’altro fanno in modo che la personalità egocentrica di Alma Wheatley si accorga davvero di lei. La signora si offre di farle da agente per interesse economico, ma da questo momento non potrà evitare di affezionarsi a Beth.

I gusti di Beth, appoggiati dalla nuova disponibilità economica, cominciano a emergere insieme alla sua personalità. Liberandosi degli strati di grigiore e tristezza degli ultimi anni, comincia a raccontare qualcosa di più su di sé. Il mezzo di comunicazione? Abiti nuovi.

Game.

La ridefinizione della propria personalità

Siamo passati dagli anonimi anni Cinquanta dell’orfanotrofio ai vividi anni Sessanta. Non è l’architettura o una precisa attenzione agli eventi storici a mostrarci questo passaggio temporale: sono i vestiti di Beth e le sue acconciature.

Un corto caschetto impreziosito da punte ondulate e set coordinati di abitini alla Edie Sedgwick ci parla di un’epoca che, tra mille ingiustizie, ha regalato qualcosa all’indipendenza femminile. La sottomissione imperava ancora sulla vita della donna ma il suo ruolo cominciava a cambiare. Come già sottolineato da serie TV alla Mad Men, il maschilismo degli anni Sessanta s’impuntava contro i tentativi di emergere delle prime professioniste, in una società che persisteva nel volersi rappresentare al maschile. Nonostante ciò, donne come Jackie Kennedy e la Sedgwick sono riuscite ad imporsi nell’America degli anni Sessanta. La prima è stata la precorritrice delle imprenditrici digitali o It Girl di oggi. Le femministe radicali si rivolterebbero nella tomba, ma per le donne di allora è stato importante vedere una ragazza ricca come Edie lottare per l’indipendenza, vivendo e lavorando come voleva. La droga l’ha rovinata, ma la sua personalità l’ha consacrata a icona intramontabile, nonostante lo schiacciante maschilismo subìto. In quanto a Jackie Kennedy, l’immagine del suo personaggio storico è spesso quella di moglie-oggetto, umiliata dal marito. Eppure, nessuno può dimenticare la compostezza e il coraggio dimostrato dalla First Lady in seguito all’omicidio di Kennedy, assassinato di fianco a lei. L’eleganza di Jackie era dovuta soprattutto alla sua capacità di gestire una pressione costante: un concentrato di forza morale e dignità umana che andava ben oltre il vestire con gusto.

Questi sono i modelli principali per il guardaroba di Beth, al quale doveva essere conferita anche una caratteristica tutta sua. Molte scene ritraggono il personaggio vestito con completi a scacchi. Il motivo spesso non è immediatamente percepibile: anziché servirsi di reticolati in bianco e nero come uno stendardo, Binder sceglie motivi delicati, in linea con i gusti delle donne americane degli anni Sessanta. Una presenza sottile ma costante, che costituisce una citazione e un omaggio a due grandi stilisti dell’epoca, André Courrèges e Pierre Cardin, morto di recente. La costumista si è servita sia di creazioni originali che di riproduzioni. Il bob vaporoso che corona la testa della nostra Beth si ispira invece ai tagli di Kenneth Battelle un parrucchiere newyorchese che porgeva fatture da capogiro alle sue clienti.

Il declino e la perdita di coscienza di sé

Durante il periodo d’oro della sua adolescenza, Beth scopre la sessualità, incoraggiata da Alma nei panni della madre-amica. È interessante vedere come si emancipa esplorando il sesso con diversi partner, un ambito della vita che al contrario intrappola Alma, subordinandola a una figura maschile. Alma e la sua femminilità condizionano Beth sotto un altro punto di vista: le fanno scoprire l’alcool che, insieme alle pillole, sarà una presenza costante dei suoi primi anni da adulta. Un viaggio in Messico per un importante torneo di scacchi cambierà tutto: Alma muore e lei perde la partita. Il senso di solitudine che sembrava sconfitto torna prepotentemente.

Anche in questo caso la serie TV si dimostra innovativa. La donna americana di metà Novecento viene spesso raccontata come sottomessa alla figura maschile, mentre quasi mai si parla della dipendenza farmacologica incoraggiata dalla società. Negli anni Sessanta si poteva riscontrare una profonda differenza di genere nella somministrazione dei farmaci. Medicine pesanti e assuefacenti erano prescritte molto più frequentemente alle pazienti. Si tendeva infatti a sottovalutare e addirittura negare disturbi come depressione o ansia, che colpivano moltissime donne del ceto medio. È interessante vedere come la sceneggiatura permetta alla protagonista di sfuggire alla prigione del sessismo, ma non a quella della dipendenza da farmaci che ha intrappolato così tante donne dell’epoca ritratta.

Superare le debolezze: la metamorfosi è completa

Dopo la morte di Alma, Beth si lascia andare. Feste, alcool e fascinazioni momentanee rischiano di prendere il sopravvento sugli scacchi. Fortunatamente, le amicizie positive sono numerose e la aiutano a rimettersi in carreggiata.

È grazie al loro sostegno che comincia a prepararsi per l’ultima partita. L’ostacolo finale che si frappone fra la scacchista e il torneo più importante della sua vita è proprio lo shopping compulsivo. Avendo speso tutto il denaro in vestiti, non sarebbe potuta partire, ancora una volta, però, è il prestito di un’amica d’infanzia a salvare la situazione. Beth raggiunge la Russia, terra dell’imbattibile campione di scacchi Borgov. Qui trionfa dopo aver superato le tentazioni in cui era caduta in precedenza, accettando l’aiuto delle amicizie accumulate negli anni. Battere lo scacchista russo equivale a superare se stessa, accettando di non essere sola contro la dipendenza. Per questo l’ultimo episodio vede Beth molto cambiata. La protagonista ha completato il percorso e la sua metamorfosi si completa quando rifiuta di tornare subito in America. Beth si concede una passeggiata nella capitale sovietica. Una città che l’ha accolta inaspettatamente per festeggiarla come campionessa, nonostante abbia battuto il campione russo. Lo fa elegantemente vestita con un completo candido, definito da un basco con pon pon che ricalca il copricapo distintivo del pezzo più importante in gioco. Questo abbigliamento – forse uno dei capi che le è quasi costato la partenza, – consacra definitivamente Beth come regina degli scacchi.

Il percorso di crescita di Beth può essere definito come un viaggio alla scoperta di sé, delle proprie debolezze e dei punti di forza che serviranno a sconfiggerle. Scoprire che non si è soli in questa lotta può essere una sorpresa.

White queen. Fonte Pinterest.

Molti spettatori di tutti i sessi e le età si identificano in Beth. Ciò potrebbe essere dovuto alla sinergia equilibrata tra il lavoro di regia, dei costumi e di recitazione. Ma non solo: alle spalle della serie TV troviamo la solida costruzione narrativa dell’omonimo romanzo di Walter Tevis, basato sulle reali dipendenze che affliggevano l’autore. Beth e la sua plasticità a trecentosessanta gradi sono il frutto di un’attenta osservazione della risposta umana al cambiamento. Se in un romanzo la crescita psicologica può essere delineata in molteplici modi, farlo sullo schermo può risultare complicato. Il lavoro di Binder è stato essenziale per evidenziare questa metamorfosi, mettendo in luce un aspetto del cinema che passa solitamente in sordina: quello dei costumi. Il risultato è un personaggio dal singolare carisma, capace di trasformare un tipo di trama già noto allo spettatore medio in un racconto sfaccettato e coinvolgente. Contro ogni aspettativa, Beth vince anche la partita della vita.

Illustrazione a cura di Francesca Pisano.