Ari Aster e Robert Eggers: la nuova stagione autoriale del genere horror

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Non si può pensare alla notte più spaventosa dell’anno senza evocare, involontariamente o meno, scene cupe, torbide o scioccanti da film dell’orrore. La settimana di Halloween non sarebbe tale senza una maratona di film horror, e Galleria Millon vuole darvi dei suggerimenti per infestare i vostri schermi.

Li troverete interessanti, si spera, se li leggerete a queste condizioni. Dimenticatevi l’horror d’exploitation. Dimenticatevi i jump scare infilati a tradimento. Dimenticatevi la CGI scadente e le trovate da casa infestata. Dimenticatevi le sale cinematografiche gremite. Dimenticatevi le grida stridule degli spettatori o le ambulanze in attesa fuori dai cinema. Dimenticatevi i topoi triti e prevedibili. E solo allora, aspettatevi tutt’altro.

Horror-Busters

Un horror diverso è possibile, insomma. Lo stanno ridefinendo con dedizione, consapevolezza e serietà due registi americani, Ari Aster e Robert Eggers. Non più esordienti, spalleggiati dalla coraggiosa casa di produzione A24, negli ultimi cinque anni hanno smantellato il genere horror plasmandolo a loro immagine e somiglianza.

Mentre nell’immaginario collettivo ancora persiste l’idea che l’horror sia un genere commerciale e di poco valore estetico, questi due autori producono film che vengono classificati come prodotti di nicchia e che vincono premi ai festival indipendenti. Evitano i colpi di scena e preferiscono una costruzione della tensione lenta e metodica, sostenuta da una scia di indizi inquietanti seminati accortamente. Rinunciano alla CGI e agli effetti speciali macchiettistici per tornare a spaventare con l’ordinario, mentre curano le apparizioni del sovrannaturale in modo da farne una forza profonda, concreta e realistica. Accettano gli stilemi del genere horror solo se giustificati da una certosina ricerca visuale e da una sceneggiatura che procede senza superficialità o trovate pretestuose. E giusto il tempo per poterli disinnescare dall’interno.

Troppo (poco) horror per essere horror?

I due registi si conoscono a un’anteprima privata del film d’esordio di Aster, Hereditary, organizzata dall’A24. Una volta terminata la proiezione, gli spettatori sono incupiti, se non furenti. L’unico che sorride è Eggers.

L’aneddoto rivela quanto questi due autori, nelle loro opere molto diversi, siano in realtà anime affini. Condividono lo stesso approccio autoriale al genere. Collaborano con gli stessi professionisti del settore. Alimentano le stesse ossessioni e frequentano gli stessi maestri – tra cui il regista svedese Ingmar Bergman. Ma soprattutto, si spartiscono lo stesso “odiamore” dell’audience e il dono di dividere la critica.

Qualcuno parla di questi film in termini grandiosi e li innalza nell’olimpo dei capolavori del secolo. Altri muovono tutta una serie di critiche di diversa natura. L’accusa comune, tuttavia, è sempre quella: questi quattro film – due di Aster e due di Eggers – non sono horror.

Noiosi, lenti, non spaventosi: ecco alcune delle rimostranze dei patiti del genere. Puntualmente, sebbene non disdegnino gli stilemi canonici, sono collocati altrove rispetto all’horror. Ma se questi film mostrano sangue, mostruosità ed eventi paranormali, senza meritarsi appieno l’etichetta, di cosa stiamo veramente parlando? Cerchiamo di capirlo.

Thomasin, interpretata da Anya Taylor-Joy, è la giovane protagonista di The Witch. Fonte: FilmGrab.

Io credo nelle streghe

La pellicola d’esordio di Eggers, uscita nel 2015, si intitola The VVitch e racconta le vicende di una famiglia di pellegrini puritani alle prese con il sospetto di aver cresciuto una strega. Nel corso del film un neonato scompare in un bosco, il demonio si presenta nella pelle di un caprone e una ragazzina volteggia nuda sopra un sabba di indemoniate. Eppure, c’è qualcuno che, più che horror, preferisce definirlo un dramma familiare.

Le scelte in materia di estetica ci portano ancora più distanti. Eggers, ancora esordiente, costruisce un film altamente derivativo. Tra le sue fonti di ispirazione cita Dreyer, il film muto russo e la pittura di Goya. Si scomoda Kubrick, per il senso di claustrofobia e la spirale di pazzia che monta in The Shining e per la scelta di girare al lume di candela come in Barry Lyndon.

Eggers è un maniaco della ricostruzione storica, e i suoi film cercano di essere filologicamente accurati. Compone il cast scegliendo attori capaci di recitare in un americano contaminato, quello degli immigrati inglesi e scozzesi del Seicento. Costruisce la cascina dove vive la famiglia con materiali d’epoca. Fa cucire i costumi a mano. Su tutto predomina un certo inquietante realismo, la sensazione di trovarsi davanti a una sorta di documento storico.

Se fosse solo questo, allora l’intento sarebbe chiaro: mostrare le pene inflitte a una femminilità repressa e minacciata dal fanatismo religioso e dalla misoginia diffusa. Addirittura, sembra che Eggers voglia suggerirci che le allucinazioni collettive e gli spauracchi sovrannaturali siano la conseguenza di un fungo che frequentemente intacca la segale. Eppure, anche la più razionale delle spiegazioni a un certo punto si confonde. Eggers vuole aprire uno squarcio su un passato in cui la minaccia delle streghe era creduta reale e spingere lo spettatore, attraverso il realismo, a vacillare nelle sue convinzioni e cedere, finendo per credere a questo incubo puritano. Siamo di fronte alla realtà o alle fantasie di una adolescente repressa? La normalità sembra o è inquietante? Le streghe esistono o non esistono? Chissà. A Eggers non interessa risolvere l’ambiguità. Perché la risposta più semplice è sempre quella più noiosa.

La protagonista, Annie (Toni Collette), insieme al marito (Gabriel Byrne), in un fotogramma di Hereditary. Fonte: FilmGrab.

Cimeli di famiglia

Anche Hereditary, il primo film di Aster, uscito nel 2018, è stato definito un dramma familiare. Perché segue le vicende di una famiglia disfunzionale che deve affrontare un lutto imprevisto e un’eredità scomoda: la nonna vuole impiantare lo spirito di un demone infernale nel corpo del primogenito. Anche qui gli stilemi dell’horror si sprecano: sedute spiritiche, diari maledetti, soffitte spaventose. E poi decapitazioni, levitazioni di corpi, possessioni demoniache. Eppure, c’è chi non lo ritiene spaventoso.

Aster è un artista, sia nella realizzazione dei movimenti puliti della camera che nella costruzione della sceneggiatura. Gradualmente, inserisce indizi rivelatori di una potenza paranormale che compare solo nella seconda metà del film, a circa sessanta minuti dall’inizio. Il risultato è una tensione costante e un sovrannaturale solido, efficace, giustificato. Una concretezza che, tuttavia, lascia spazio a letture discordanti.

Oltre a Rosemary’s Baby, Hereditary è stato affiancato a Vargtimmen (L’ora del lupo) di Bergman, per la sua miscela di allucinazione e suggestione psicologica. L’esoterismo si innesta sui drammi e sulle incomprensioni connaturati all’archetipo della famiglia borghese americana, rafforzandoli. L’eredità del male non è per forza un demone che procede di generazione in generazione come una malattia genetica, ma il malessere psicologico e l’incapacità di costruire delle relazioni familiari sane. Stiamo seguendo la vicenda dal punto di vista delle vittime sacrificali, ci dice Aster, e assistiamo alla realizzazione di una maledizione inevitabile. Ma l’hamartia – termine adatto, dato che si cita la tragedia greca nel film – qual è? Aver aderito a un culto satanico o aver costruito una famiglia?

Uno dei rituali scabrosi che si praticano nel villaggio svedese di Hårga, in Midsommar. Fonte: FilmGrab.

Una fiaba svedese

Aster torna nelle sale nel 2019 con un’altra impresa azzardata, intitolata Midsommar. Ancora una volta, la trama ruota attorno a un rapporto disfunzionale: quello tra una ragazza in lutto e il fidanzato che non ha alcun interesse a consolarla. La relazione tossica viene interrotta bruscamente grazie a un viaggio in Svezia con gli amici, durante il quale la compagnia partecipa a un festival pagano. Aster non se la sente di definirlo un horror puro: potrebbe rientrare nella categoria degli horror folk movie, ma in realtà lo considera qualcosa di adiacente. Anzi, da un certo punto di vista – quello di Dani, la protagonista – dice che può essere considerato una fiaba.

Come nel primo film, emerge prepotentemente l’amore per le simmetrie alla Kubrick e per certe geometricità pure alla Jodorowsky. Ricompaiono i simboli del personale teatro degli orrori di Aster, il gusto per i rituali neopagani e la tendenza a sfruttare la tecnica della mise en abyme. Se in Hereditary la pratica della duplicazione della trama si verifica grazie ai modellini realistici costruiti dalla protagonista per replicare la realtà, qui invece gli eventi sono riprodotti e anticipati da pitture e arazzi. Infatti, le cruente vicende dei personaggi sono già mostrate all’inizio del film, ricamate fase per fase sugli artefatti votivi della comunità di Hårga.

È questo, in fondo, che mina l’appartenenza al genere horror di Midsommar: i topoi sono contraddetti. Non c’è la suspense, ma un crescendo di angoscia che stride con l’atteggiamento rilassato degli abitanti del villaggio e i cieli tersi e cristallini della Svezia. La tensione, a volte, è disturbata da inserti grotteschi e da scene quasi comiche, come quella che segue l’accoppiamento rituale. Assistendo a questa scena, lo spettatore rimane spiazzato perché non sa cosa sta guardando. Ma poi si accorge di un piccolo, orribile particolare – il fuggitivo che scappa comicamente, nudo, ha il pene insanguinato – e gli si accappona la pelle.

Uno dei guardiani del faro di The Lighthouse, interpretato da Robert Pattinson, scivola nella follia. Fonte: FilmGrab.

Allucinazioni in bianco e nero

Il secondo film di Eggers, uscito nel 2019, è The Lighthouse, e si tratta di un altro horror senza horror. Ci mostra la convivenza burrascosa e allucinante di due guardiani di faro a fine Ottocento, ma parlare della trama non è poi così importante. Eggers e il fratello Max l’hanno costruita in modo contorto e spiazzante, con l’intento di spostare l’attenzione dello spettatore altrove. Infatti, al contrario della maggior parte degli horror, The Lighthouse è principalmente un’esperienza estetica e intellettuale.

Pensato e scritto per suggestionare, questo film non punta alla tachicardia o ad altre sensazioni istintive: è un gioco mentale. Eggers ci chiama a partecipare non tanto ai deliri di questi guardiani assaltati da una presenza soprannaturale di incerta natura, quanto a riconoscere tutti i rimandi di cui ha infarcito la sua opera. Allora i tentacoli marini richiamano alla memoria le weird tales alla Lovecraft, mentre i rapporti umani torbidi ricordano i racconti di Poe. In filigrana, emergono i miti di Prometeo e di Sisifo, mentre il linguaggio sgrammaticato e oscuro diventa comprensibile una volta aperto un thesaurus marinaresco dell’Ottocento. Certi dialoghi, poi, sono citazioni letterali della scrittrice Sarah Orne Jewett. A livello visivo, le lenti di primo Novecento, il formato 1,19:1 e il bianco e nero – autentico, non desaturato in post-produzione – è un omaggio al cinema espressionista europeo. La recitazione sopra le righe di Willem Dafoe suggerisce una parentela con i film muti e il direttore della fotografia ha lavorato lasciandosi ispirare dalla filmografia di Fritz Lang.

In questa cornice elaborata va in scena un dramma farsesco sulla mascolinità – due uomini intrappolati in un faro-fallo – che arranca lentamente, tra allucinazione e claustrofobia. Niente sussulti o spauracchi: anche noi, come i protagonisti, cuociamo lentamente su una graticola e, come loro, non andiamo da nessuna parte.

Un patto diabolico

Da una parte, un regista detrattore accanito della famiglia borghese, affascinato dalle possibili iconografie del neopaganesimo, risolve il caos della distruzione con l’imposizione finale di una geometria tanto ordinata quanto maligna. Dall’altra, un regista filologo e studente di arti visive mancato pensa che il diavolo sia nei dettagli e che la quotidianità sia portatrice dell’afflato più malefico del sovrannaturale. Due autori che giocano con l’horror affastellando diversi piani di lettura, spesso contrastanti, e confondendo lo spettatore, senza spaventarlo.

Allora, il patto tra spettatore e il regista di horror diventa diabolico. Le aspettative del primo, infatti, sono frustrate e deluse dal secondo. Ma, all’apice dello smarrimento, Aster e Eggers offrono qualcos’altro in cambio: l’intuizione sottile che l’horror non ha tanto a che vedere con i colpi di scena forzati o le reazioni materiali, corporee. L’horror è, piuttosto, il tentativo di realizzare le proprie fantasie personali in modo da renderle condivisibili, ricorrenti anche negli incubi di qualcun altro. È una questione mentale, psicologica. Che si tratti di relazioni archetipiche o di ossessioni estetiche, sempre di fantasie si tratta. Aster ed Eggers, in questo senso, hanno davvero smantellato il genere horror e lo hanno plasmato a loro immagine e somiglianza. Letteralmente.

Illustrazioni di Francesca Pisano.