Ted Lasso: un sogno, forse una favola

Ted Lasso: un sogno, forse una favola

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Se ancora non avete visto, o peggio, non sapete cosa sia Ted Lasso, è ora di rimediare. Le due stagioni sono entrambe disponibili su Apple TV+: non avete scuse. E la nostra Critica d’arte, con un entusiasmo quasi incontenibile, non vede l’ora di convincere anche i più restii a recuperarle. 

Perché il web sta impazzendo per questa serie del 2020 che parla di un allenatore e della sua scalcagnata squadra di calcio inglese? Non ne abbiamo abbastanza della nostra, di cultura calcistica diffusa? Della Serie A spezzatino che tiranneggia il palinsesto della televisione e domina il panorama mediatico, anche quando non c’è niente di davvero interessante da dire? Non siamo stanchi di tutte le chiacchiere da bar, degli allenatori della domenica, dei patiti del fantacalcio, dei memi di Pettinarsi come Pandev? Assolutamente sì. Ma Ted Lasso non ha niente a che vedere con tutto questo. 

Chi è Ted Lasso

Il personaggio di Ted Lasso nasce molto prima della serie omonima. La sua comparsa risale al 2013, quando Jason Sudeikis impersona in uno spot promozionale della NBC un allenatore americano trapiantato a Londra per guidare il Tottenham. L’emittente americana, infatti, aveva comprato i diritti per trasmettere la Premier League, la massima divisione inglese, e cercava un modo spiritoso per accattivarsi il nuovo pubblico. 

Sette anni dopo la macchietta buffa del coach americano che si ritrova a fare il football manager in Inghilterra si è trasformata in un personaggio a tutto tondo. Ted Lasso ora allena un’altra squadra di Londra, il fittizio AFC Richmond. Incarico che ovviamente ha accettato senza avere la minima idea di come funzioni non solo il gioco del pallone, ma soprattutto ciò che gli ruota attorno. Nonostante l’ostilità con cui il mondo inglese sembra accoglierlo, Ted affronta tutto con un inguaribile ottimismo, un’inconfondibile bontà di cuore e la sua candida perspicacia. Ed è impossibile non amarlo: come san Francesco, Ted trasforma i lupi in agnelli, i nemici in alleati.

Da un’estemporanea trovata pubblicitaria si è sviluppata una serie comedy solida. Ted Lasso è divertente, piena di battute azzeccate e mai sopra le righe e di personaggi adorabili che vorrete proteggere dalle storture del mondo. Una serie da guardare tutta d’un fiato, e poi riguardare, perché fa bene al cuore. In un mondo brutto come il nostro, ogni tanto ci serve qualcosa per illuderci che le cose possano andare diversamente. Che le persone possano essere migliori, che i sogni possano realizzarsi, che anche quando tutto sembra perduto potremo sempre concederci un’altra possibilità.

Roy Kent, interpretato da Brett Goldstein (che è anche sceneggiatore della serie), è il fidanzato ideale che non sapevate di volere. Fonte: Apple TV+ Press.

Uomini d’oro, o quasi

Ad esempio, Ted Lasso ci regala la speranza di poter immaginare un mondo del calcio diverso. Un mondo in cui i calciatori non assomigliano allo stereotipo del tipico coatto assorto nel culto della propria persona e del proprio denaro. Noi – che siamo abituati al vuoto cosmico dei pleonasmi da post-partita, uno dei pochi luoghi dove si realizza davvero l’eterno ritorno dell’uguale nietzschiano – sappiamo che non è così. I media documentano minuziosamente da anni i contenziosi sugli stipendi stellari, gli atteggiamenti diffusi da prima donna, il cattivo gusto schiaffato sui social. Mica si possono dimenticare le risse da bar in campo e sulle panchine, le accuse di molestie insabbiate, i coca party, gli scandali e quant’altro. Se poi gli sceneggiatori di Ted Lasso ci regalano Roy Kent, allora l’unico commento possibile è che è troppo bello per essere vero. 

Roy Kent è il capitano dell’AFC Richmond, quello che Caressa definirebbe un senatore. È burbero e taciturno; quando parla, lo fa principalmente per imprecazioni: sembra inavvicinabile. E invece è proprio quel tipo di persona che faresti di tutto per impressionare e tenerti accanto. Lo ammiri perché difende i più deboli e fa sempre la cosa giusta, anche quanto non avrebbe voglia di intervenire. Ti intenerisce perché divide il suo suo tempo libero tra le lezioni di yoga, che segue insieme a un gruppo di signore attempate, e Phoebe, la sua nipotina. E poi ne apprezzi il suo l’equilibrio emotivo e la sua capacità di comprendere le esigenze della sua fidanzata, di farsi da parte per lasciarla splendere e di essere con lei estremamente onesto. 

Il rivale di Roy, come in ogni storia di agonismo sportivo che si rispetti, è il giovane talento emergente destinato alla gloria, lo stronzissimo Jamie Tartt. Ecco, lui corrisponde all’identikit della tipica stella del calcio: un narcisista che non ha paura di ostacolare i suoi stessi compagni di squadra. Ted Lasso, però, fa la magia: persino l’infido Jamie Tartt ha diritto al suo glow-up. Anche Jamie ha la possibilità di trasformarsi in una persona decente, che ha imparato il valore della solidarietà e ha messo da parte l’orgoglio per lasciare emergere le sue vere emozioni. Incredibile, ma vero: vediamo degli uomini, anzi dei calciatori, capaci di parlare onestamente dei propri sentimenti. Un altro dei miracoli di Ted Lasso. 

Tra Keeley, interpretata da Juno Temple, e Rebecca, interpretata da Hannah Waddingham, nasce una bellissima amicizia. Checché se ne dica dell’invidia femminile. Fonte: Apple TV+ Press.

Essere donne in un mondo per uomini

Come se non bastasse, Ted Lasso ha un altro grande pregio, che consiste nella sua capacità di rappresentare una schiera di personaggi femminili dotati di attributi.

Senza parlare di Sassy o della dottoressa Sharon, limitiamoci a considerare le due protagoniste femminili principali: Keeley Jones e Rebecca Welton. Keeley è un tornado: un incontenibile, abbagliante, dolcissimo tornado. Grazie al suo altruismo disinteressato Keeley conquista chiunque le stia accanto. Ha la forza di reinventarsi da modella a consulente di pubbliche relazioni e, con tenacia, di realizzarsi in ambito professionale, senza sacrificare nulla alla propria vita sentimentale. Così, alla fine della seconda stagione, la vediamo guadagnarsi la sua intervista su Vanity Fair ed essere riconosciuta come vera imprenditrice di successo. 

E poi c’è Rebecca, la padrona del Richmond, che nella prima stagione fa di tutto per mettere i bastoni tra le ruote a Ted. Pensate a lei e vi verrà in mente quel verso della canzone dei Cani. Come nei film di Wes Anderson, «i cattivi non sono cattivi davvero» e Rebecca, ovviamente, diventerà molto in fretta la migliore alleata di Ted. Con molto sollievo da parte dello spettatore, perché è veramente difficile resistere al fascino di Rebecca, interpretata da quella dea in terra dalla voce fenomenale che è Hannah Waddingham.

Donne forti, indipendenti e di successo in un mondo fatto di e per uomini. Vi ricordate di presidentesse di club di Serie A, per caso? C’è stata la Roma di Rosella Sensi, ma poi? Qua e là, ogni tanto, sbuca una donna in una posizione di potere, ma gli unici che si sfregano le mani sono i giornalisti di Novella 2000. Perché il calcio non è ancora una cosa da ragazze. Ultimamente vorrebbero farci credere il contrario, ma non è così. Perché alle donne non è ancora concesso il rispetto, più che lo spazio. E finché dagli spalti si griderà come animali verso una giardiniera che falcia il prato, o si darà della puttana all’arbitro o si giudicherà una professionista in base alla bellezza e alla bellezza soltanto, la situazione non cambierà. 

Coach Beard, interpretato da Brendan Hunt, si merita veramente un episodio tutto suo. Fonte: Apple TV+ Press.

Sweet and tender hooligan

L’episodio più singolare della serie è – e forse rimarrà – Beard After Hours. Si tratta di un omaggio al cinema di Martin Scorsese della durata di un intero episodio, il cui protagonista assoluto è il vice di Ted, Coach Beard. È un breve viaggio al termine della notte, tra il nonsense che pretende la sospensione della credulità e il processo di redenzione che l’eroe ferito si autoimpone. Giù, nel ventre pulsante della Londra notturna, dopo una batosta contro il Manchester City, ci scende Beard, un eroe tra il trickster enigmatico e il viandante innamorato.

Coach Beard è un altro di quei personaggi a cui non puoi non volere bene: è l’archetipo dell’amico fidato. Sai che con lui puoi parlare di tutto, che ti starà sempre accanto per aiutarti, anche lasciandoti sbagliare, se serve. Di questo episodio sicuramente vi rimarrà impressa la scena di ballo finale, un’autentica catarsi al neon sulle note di Hello di Martin Solveig – e l’ingordigia di Thierry Henry. Ma ne parliamo ora per un’altra ragione, e cioè perché Beard condivide un tratto della sua epopea con Baz, Jeremy e Paul, tifosi del Richmond.

Questo terzetto, che ha l’aria di muoversi come un unico individuo, è una presenza ricorrente, e loquace nelle sue recriminazioni, che spesso Ted incontra nel pub di quartiere. Sono tifosi adirati, ed è anche comprensibile, dato che la loro squadra del cuore non ne azzecca una. Ma non sono nulla in confronto alla realtà dei veri ultras, che sappiamo essere sguaiati, violenti, belluini. Se guardiamo alle nostre curve, ci vediamo la camorra, i fascisti che insozzano le immagini di Anna Frank, i razzisti che lanciano banane. Certo, anche Ted all’inizio deve fare i conti con una tifoseria ostile e brutale. Ma quanto è bello vedere che questo astio che la domenica spinge la tifoseria a urlargli contro “wanker” è solo un odio di facciata? Nell’aggressività del piccolo hooligan da pub non manca mai il candore. E alla fine si finisce a bere una pinta tutti insieme. 

Sam Obisanya, interpretato da Toheeb Jimoh, e la quiete prima della tempesta. Fonte: Apple TV+ Press.

Un sogno, forse una favola

Ma il momento preciso in cui griderete «è tutto troppo bello per essere vero» è davanti al terzo episodio della seconda stagione, Do the Right-est Thing. Chi vi strapperà queste parole di bocca è Sam Obisanya, un giovanissimo talento in boccio dal sorriso splendente e dal cuore puro. Talmente puro che, venendo a conoscenza che il maggiore sponsor del club finanzia la distruzione sistematica del suo suolo natio in Nigeria, decide di boicottarlo pubblicamente. Il Richmond finisce così per perdere un finanziatore essenziale. Ciononostante, tutti i suoi compagni lo appoggiano e partecipano alla sua protesta, e Sam finisce per fare breccia nel cuore di Rebecca.

Qui entriamo nei territori rosei e ovattati dell’utopia. Il calcio è principalmente una questione di soldi: tutto il resto è secondario. I tifosi forse fanno ancora fatica ad accettarlo – basta osservare gli strascichi del trasferimento di Donnarumma al PSG o quello di Lukaku al Chelsea – ma questo non cambia i fatti. Non ha senso parlare di mercenari, di fronte a questi spostamenti di mercato: si tratta di investimenti e ricavi, non del giuramento degli Orazi. Soldi, insomma. Come quelli ricevuti dalla FIFA per autorizzare e promuovere un mondiale in Qatar, ignorando il costo umano che la realizzazione delle infrastrutture ha comportato. O quelli che investono i miliardari arabi o asiatici nel calcio europeo ogni anno per costruire le loro assurde e costosissime rose di supercampioni, fuori scala quanto il team degli alieni dopati di Space Jam. Il calcio è solo un business come un altro, e negli affari non c’è posto per l’idealismo. Qui le scelte etiche hanno un altro nome, e cioè ritorno d’immagine. 

Nel mondo di Ted Lasso, un calciatore mette a rischio la propria immagine e il proprio stipendio per opporsi a un impero miliardario e al governo di un Paese. Dal nostro lato della realtà, invece, non credo potremmo ambire a tanto. Forse sarebbe già troppo auspicare che un giorno Ibrahimović smetta di parlare di sé in terza persona. 

Il calcio è vita

Ted Lasso, quindi, strappa il calcio e i suoi protagonisti al circolo vizioso innescato dal discorso corrente sul calcio. Certo, nella serie non mancano gli sponsor, il machismo, il tifo ottuso, i giornalisti avvoltoi. Tuttavia, tutti questi elementi – che ci restituiscono un ritratto del calcio come show business se non senz’anima, vicino alla dannazione – non sono abbastanza pesanti da affossare lo spirito di Ted Lasso. Ted vola più in alto, perché lo sollevano da terra la sua umanità, il suo candore, la sua sportività. Il calcio torna a essere una cosa bella. Torna ad assumere la giusta prospettiva, a collocarsi un gradino più in basso rispetto alla vita: torna a essere un gioco. E il capitale umano smette di essere una plusvalenza da far fruttare. Allora, e solo allora, il calcio, come dice Dani Rojas, è – anche – vita. E ci sentiamo tutti un po’ più leggeri.

Illustrazione a cura di Caterina Cornale.