Il gioco e il massacro: la metamorfosi secondo Flaiano

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La Critica d’arte, a volte, si concede delle finezze gnoseologiche. Oggi, per esempio, ha deciso di parlare di metamorfosi rileggendo un libro in cui il cambiamento avviene, ma senza verificarsi. Ingarbugliato, vero? Ma come potrebbe non esserlo, se al centro del dibattito mettiamo un’opera di Ennio Flaiano?

Forse avete già sentito parlare di Ennio Flaiano, uno degli sceneggiatori fidati di Fellini. Ma non è solo questo. È anche un fine critico di costume, teatro e cinema, oltre che uno scrittore satirico, un poeta e un autore di racconti e aforismi. Flaiano si cimenta anche nelle forme letterarie non brevi, ma ha dei problemi con il romanzo. Dopo Tempo di uccidere – impresa che gli ha fatto intascare il primo Premio Strega della storia – rinuncia al genere, ma non smette di inseguire la chimera della narrativa. Rimangono allora i suoi racconti, racchiusi in raccolte, e tra queste, Il gioco e il massacro, pubblicata nel 1970.

Il gioco e il massacro si compone di due storie complementari. L’obiettivo, per Flaiano, è quello di una carriera: spiegarci cos’è diventata la metamorfosi, a noi nota fin dalle mitologie più remote, nel caos della società postmoderna. E lo si capisce ancora prima che il racconto cominci.

Avvertenza ai lettori

I manoscritti che seguono sono stati trovati dentro due bottiglie. Si riflettono l’uno nell’altro e si completano, ed è questo il fine che li unisce. […] Come quei suppliziati di una volta, chiusi in casse dalle quali sporgevano soltanto con la testa, essi si riconoscono e, per ingannare il tempo della pena, raccontano le loro storie, sempre meno improbabili in una società dove la metamorfosi è una vita di ricambio, tra il gioco e il massacro.

E. Flaiano, Il gioco e il massacro, Milano, Adelphi, 2014, p. 10.

Quella che avete appena letto è la nota che Flaiano mette in testa al suo dittico. Se pensate che queste poche righe abbiano tutta l’aria di un manifesto programmatico, avete ragione. Flaiano ci spiega tutto ancora prima di aver iniziato a raccontarci una storia. Tutto: i due racconti, la società, la sua vita stanno in queste righe. Ma andiamo con ordine, una parola per volta. Vi prometto che alla fine ogni tassello prenderà il suo posto.

Metamorfosi

La prima parola non può che essere metamorfosi. Non solo perché è il nostro tema del mese, ma perché è il cuore di questa raccolta.

Siamo alla fine degli anni Sessanta. Tutto sta cambiando (o è già cambiato?). La società non è più la stessa, e nemmeno gli individui che la abitano. Ma la transizione, secondo Flaiano, non è felice. Non c’è entusiasmo, in questo tipo di cambiamento. Lo spiegano bene le due storie che compongono il dittico.

Nella cultura classica la metamorfosi è un evento magico, un dono divino che può mutare le membra umane in corteccia. Invece, alla fine degli anni Sessanta, quando gli intellettuali smaniano per il neorealismo, di magia non può esserci traccia. Infatti, i personaggi di Flaiano cambiano, ma non c’è un mutamento evidente. Lo shift avviene a livello psicologico, nelle scelte di gusto e nelle consuetudini quotidiane. La metamorfosi è invisibile, ci dice Flaiano. Anzi, ancora peggio: è priva di sostanza. La metamorfosi, infatti, è «una vita di ricambio», una questione sociale e insieme un comportamento adattativo. È un cambio d’abito, ma per andare sempre alla stessa festa, quella dove si conoscono già tutti e le solite facce sono venute a noia. Nulla di coraggioso, insomma, e nemmeno di eccitante. Cambiare tutto per non cambiare niente.

Lorenzo Adamante trova una consolazione pericolosa nel flusso ininterrotto della sua televisione. Fonte: foto di aj_aaaab da Unsplash.

Le loro storie: Adamante

Ma facciamo un passo ulteriore, e veniamo al contenuto delle nostre metamorfosi.

Oh Bombay!, il primo dei due racconti, parla della “conversione” di Lorenzo Adamante, un arredatore di interni di mezza età. La sua metamorfosi potrebbe sembrare più oltraggiosa di quello che in effetti è. Sì, perché Adamante, durante un viaggio in Giappone, scopre in sé – omosessuale pacificato – il desiderio inconcepibile e inconfessabile del sesso femminile.

Non lasciatevi ingannare: non c’è bigottismo, in questa vicenda. Flaiano sta usando la storia di Adamante come parabola. E l’unico insegnamento è che non c’è fuga dall’infelicità e dall’insoddisfazione, nemmeno nel falso mito dei desideri convenzionali. Se di desideri convenzionali, oggi, ha ancora senso parlare.

Il correlativo oggettivo di questa vicenda fatta di alienazione è la televisione portatile. Adamante ne riceve una da una cocktail hostess a Hong Kong. Attraverso questo piccolo oggetto cambia il suo modo di vedere il mondo e di concepire la realtà. All’improvviso la distanza si annulla e lo spettatore può vedere luoghi lontani in tempo reale. Il concetto di durata scompare, la realtà diventa un eterno presente. Ma questo presente è fatto di frammenti, bocconi di conversazioni origliate e immagini decontestualizzate: un catalogo di luoghi comuni. E, a uno sguardo più attento, appare evidente una somiglianza quasi diabolica. Infatti, lo schermo sfrigolante si configura come lo specchio e il doppione dell’identità alienata di Adamante. Un’identità confusa, incapace di sintonizzarsi sulla frequenza più nitida, condannata come la televisione all’impero dei desideri comuni.

Le loro storie: Fabro

La seconda metà del dittico si intitola Melampus, e nelle intenzioni di Flaiano doveva diventare la sceneggiatura del suo primo film. Il protagonista, Giorgio Fabro, uno scrittore approdato per lavoro a New York, si innamora di Liza Baldwin, una ricca e giovane ereditiera. Si tratta, però, di un amore impossibile, e questo ci porta alla metamorfosi. Per salvaguardare il rapporto, infatti, Liza Baldwin si trasforma in un cane, agendo secondo le dinamiche che regolavano il rapporto tra Fabro e il suo cocker spaniel, Melampus. La donna si accoccola ai piedi del letto, morde e lecca, aggredisce il postino e scorrazza con altri cani. E Fabro la osserva perplesso e sospettoso, incapace di capire quanto ci sia di finzione e quanto di pazzia.

Il comportamento di Liza è e rimane sempre ambivalente. Liza ha dovuto trasformarsi in cane per offrire a un uomo sfuggente un amore totalizzante e una lealtà incrollabile? O le è bastato recitare? Da una parte, l’ipotesi di un ritorno alla natura; dall’altra, un atteggiamento che rinuncia all’innocenza animale. Infatti, cosa c’è di più culturale e umano della recitazione? Una o l’altra, poco importa. L’obiettivo rimane la fuga: trovare una scappatoia, rifiutare il copione già scritto che condanna a morte ogni storia d’amore.

Tuttavia, come dice Proust, l’amore è una cattiva scelta, e per Flaiano lo è sempre. I suoi personaggi devono dimostrarlo una volta per tutte. La metamorfosi, infatti, è linfa vitale del loro rapporto, ma anche il loro veleno. Allora il gioco di ruolo non è altro che un passatempo, mentre all’orizzonte si profila in ogni scenario possibile la stessa sconfitta.

Giorgio Fabro e Liza Baldwin hanno modo di incontrarsi grazie ai loro cocker spaniel. Tramite un amico comune, infatti, i padroni fissano un appuntamento per far accoppiare i loro cani. Fonte: Foto di Theo da Pexels.

Una società

Sullo sfondo delle metamorfosi personali, c’è una tempesta epocale: il boom economico degli anni Sessanta. La società si è trasformata. Il comparto industriale domina la vita sociale, mentre la scena politica è occupata da un nuovo spaventoso protagonista: la massa.

Il progresso, però, ha il suo prezzo, che va pagato su un piano che non è quello materiale. L’arte, per esempio, diventa afona. Non c’è più nulla da dire – e Flaiano ce lo fa presente, attraverso le infinite conversazioni dei suoi personaggi sul teatro, sul cinema e sulla letteratura.

Ma la crisi dell’arte è solo la punta dell’iceberg: un sintomo di una crisi più profonda. Nuovi valori si stanno affermando: il successo, il luogo comune, la mercificazione, l’happening, l’inautenticità, la violenza e l’insensibilità. Contro la chiacchiera, l’unica soluzione è il silenzio, l’unica possibile e anche l’unica mai compiuta. Una scelta di altri tempi, distante, come sembra suggerirci il riferimento in Oh Bombay! alla novella boccaccesca sul re del Garbo.

Ma poco conta quanto antiquata sembri questa opzione: non ci sono alternative. Piuttosto che parlare, è meglio prendere appunti stando in disparte, aspettando una chiarezza che mai si realizzerà.

La parola mancante

Adamante e Fabro raccontano la loro storia per appunti. Quello che noi leggiamo, infatti, è il loro diario. Non è una questione da sottovalutare, perché in questa consuetudine c’è un indizio importante per capire bene l’avvertenza dell’autore. Qui si nasconde la parola mancante: io.

Flaiano è un osservatore. È uno spirito di altri tempi, o un marziano, condannato a vivere in una società di cui capisce il funzionamento malato, ma che proprio per questo non può compatire. Si limita a prendere appunti.

Le pagine del Gioco e il massacro, a volte, si fanno trasparenti. Così emerge l’io, la voce di Flaiano, che doppia quella dei protagonisti. Emerge nelle abitudini dei suoi personaggi, che tengono diari, si annoiano e viaggiano per lavoro. O nelle considerazioni sul cinema e sulla letteratura, su Gide, Boccaccio, Mondrian. Ci sono gli aforismi di Flaiano sparsi ovunque, rivestiti di un’aura che, come al solito, li rende microcosmi autosufficienti. Ci sono pezzi del suo diario personale che diventano tasselli della finzione.

Flaiano ha bisogno di dire la sua verità, di spiegarci quello che sono per lui i morenti anni Sessanta, i suoi tempi, così simili ai nostri. Anni in cui il consumismo, il condizionamento sociale e la tecnologia hanno stravolto le relazioni umane fino a disumanizzarle. Dentro le sue parole, come sempre, Flaiano ci mette la crisi, i rapporti umani disastrati e l’amore per una professione – quella dello scrittore – in via d’estinzione.

Ennio Flaiano. Fonte: Wikimedia Commons.

Tra il gioco e il massacro

Eccoci, infine, all’ultimo tassello: la parola, anzi, le parole chiave di questa rilettura. Sono parole indispensabili, perché definiscono lo spazio in cui si consuma la metamorfosi della nostra società. Queste coordinate sono così importanti, infatti, che Flaiano ce le indica subito, nel titolo: le trasformazioni, oggi, si compiono tra il gioco e il massacro. Ma cosa significa?

Per chi conosce un po’ lo stile di Flaiano, non è difficile intuire cosa sia il gioco: è l’ironia. Ed è anche la risata sguaiata che sgorga nella gola del gozzo che non capisce nulla di ciò che gli capita attorno. È la sapidità dell’arguzia arresa con cui le vicende vengono raccontate. Ma il gioco è anche quel concetto su cui si fonda la nostra società: il “facciamo che”. La finzione collettiva, la pantomima come unico strumento per interfacciarci tra individui sociali.

Nemmeno il concetto che sta dietro al massacro è poi così difficile da capire. Il massacro è l’esito di un’epoca di transizione. Abbiamo detto che la metamorfosi è come un cambio d’abito prima di andare a una festa. Ma sarebbe meglio dire che, più che a una festa, si va alla propria macellazione. Il massacro è l’assenza del lieto fine. E il gioco camuffa la tragedia con la farsa.

Suppliziati

Quindi tutto è inutile, e l’inutilità conduce alla noia. Tra il gioco e il massacro, c’è la noia, e secondo questo principio vengono vissute le vite di Adamante e Fabro. Flaiano sa che sono prigionieri, e infatti ce li mostra intrappolati in un loop diabolico da cui non sanno come sfuggire: «Il lieto fine non è un lieto fine per me, ma un ritorno alla situazione iniziale, al serpente che si morde la coda, al circolo chiuso, e quindi: all’inferno». (A. Longoni, Non si scrivono i racconti per i direttori, postfazione a E. Flaiano, Il gioco e il massacro, Milano, Adelphi, 2014, pp. 308-309.)

Li guarda e li accompagna, mentre si incamminano verso la loro occasione mondana. La meta non è una festa, né un mattatoio: stanno andando all’inferno. E noi con loro. Perché non c’è scampo, nemmeno per le vite di ricambio, tra il gioco e il massacro.

I manoscritti che seguono sono stati trovati dentro due bottiglie. Si riflettono l’uno nell’altro e si completano, ed è questo il fine che li unisce. […] Come quei suppliziati di una volta, chiusi in casse dalle quali sporgevano soltanto con la testa, essi si riconoscono e, per ingannare il tempo della pena, raccontano le loro storie, sempre meno improbabili in una società dove la metamorfosi è una vita di ricambio, tra il gioco e il massacro.

Illustrazione a cura di Noemi D’Atri.